Nel gennaio del 1944, a Firenze, in una cella del carcere femminile di Santa Verdiana, una donna si toglieva la vita ingerendo una fialetta di fluoruro di zinco, un veleno che serve anche come topicida, per evitare la deportazione nei campi di sterminio. Era una zoologa, aveva 53 anni ed era ebrea. Si chiamava Enrica Calabresi.
Era di famiglia ferrarese, di origini ebraiche ma non osservante. In sinagoga i genitori andavano solo per le grandi ricorrenze, più per rispettare un obbligo sociale che per senso religioso. Nel loro cuore non c’era molto posto, insomma, per la devozione religiosa.
Enrica aveva terminato il liceo (diplomandosi con pieni voti e “menzione onorevole”) per poi iscriversi all’università a matematica. Frequenta però anche i corsi di zoologia e di botanica che si tengono presso la facoltà di medicina. Sono materie che l’appassionano e per questo, non essendovi a Ferrara un corso di laurea in scienze naturali, si trasferisce all’università di Firenze. Si laurea regolarmente in quattro anni con una tesi che le costa due anni di fatica e sarà pubblicata. Comincia così la sua carriera scientifica.
Ha dapprima un incarico presso il Gabinetto di Zoologia e Anatomia comparata dei vertebrati; qualche mese dopo è assistente effettiva del Regio Istituto di Firenze e inizia a pubblicare i suoi primi saggi sull’Archivio Zoologico Italiano, il giornale nato subito dopo la fondazione dell’Unione Zoologica Italiana.
Nel 1915 trova pure il tempo di fidanzarsi con un geologo di Udine, Giovanni Battista De Gasperis, grande appassionato di montagna. Tra lei e il sogno di felicità rappresentato dal matrimonio si inserisce però la guerra, la prima guerra mondiale. Giovanni è ufficiale degli alpini, impegnato in sortite e attacchi che non spostano il fronte neppure di un centimetro, prima sul Monte Croce e poi lungo l’Isonzo. Già a giugno del ’15 viene ferito a uno zigomo e torna per la convalescenza a Firenze ma, dice, “non faccio il militare per istruire reclute a Campo di Marte”. Chiede e ottiene di tornare in prima linea ma non dimentica di essere geologo. Scrive alla fidanzata: “Ieri ho provato il supplizio di Tantalo applicato alla geologia. In una vicina selletta stanno alcune trincee in muro a secco: tutte le pietre sono piene di fossili. E come sono belli. Ma ne ho preso nota e se porto a casa la ghirba…”. Non vi riuscirà. Aveva scritto a Enrica: “Se gli austriaci volessero mandarmi via, non lo tollererei”. Il 16 maggio del 1916 viene invece spazzato via dal piombo nemico, colpito al petto. Alla fidanzata non restano che le sue lettere e l’abito che aveva preparato per il matrimonio. Enrica rimane sola e non si sposerà più, dedicandosi interamente alla ricerca scientifica e all’insegnamento e vestendosi per tutta la vita sempre di nero. Il lutto cambia radicalmente i suoi comportamenti, quasi la sua stessa figura fisica. Le foto con l’abito del matrimonio, il grande ed elegante cappello, l’ombrellino a cui si appoggia con grazia ci mostrano una ragazza nel pieno della sua giovinezza, tra dolcezza e malizia. La morte di Giovanni la trasforma nel ritratto che anni dopo ne farà una sua studentessa: “Austera, non autoritaria. Appassionava con le sue spiegazioni, però non l’ho mai vista scherzare”.
Nel 1922 partecipa al concorso per il posto di conservatore al Museo “Giacomo Doria” di Genova. Classificatasi prima, rinuncia però al posto per continuare a lavorare presso quello che si era trasformato, nel 1924, in Istituto di Zoologia della Regia Università di Firenze. Viene abilitata alla libera docenza in zoologia e nel marzo del ‘26 è promossa aiuto, confermata nella qualifica di anno in anno fino al 31 ottobre 1933.
Ma Enrica sembra bersagliata dalla sorte. Il suo direttore, Angelo Senna, ha un allievo più giovane di lei, il conte friulano Ludovico di Caporiacco, che si laurea brillantemente a Firenze e al quale assegna il posto di assistente. Nelle gerarchie accademiche, il conte si trova qualche gradino sotto ad Enrica ma ha un “titolo forte”: nel ’21 si era iscritto al Partito nazionale fascista per prendere parte, l’anno dopo, alla marcia su Roma. È insomma, e resterà fino alla fine, un fascista duro e puro e anche filonazista, riscattandosi solo verso la fine della guerra. La scelta è ovviamente a suo favore. È lui che viene nominato aiuto effettivo. L’arrivo del conte fa comprendere a Enrica che Firenze le ha chiuso le porte. Nel dicembre del ’32, avanzando inesistenti motivi di salute, si dimette dall’università “dove per molti anni ho vissuto nella più perfetta armonia con tutto il personale e dove ho goduto le migliori gioie e soddisfazioni” e chiede di passare alle scuole medie. Non riesce però a trovare un posto, lei, libera docente. Allora, per non essere costretta a tornare, sconfitta, nella casa di famiglia, si iscrive nel ’33 al Partito fascista e riceve così un incarico per insegnare scienze matematiche all’Istituto tecnico “Galilei” di Firenze. Nel ’35 consegue l’abilitazione all’insegnamento medio. L’anno dopo, la sua carriera sembra ricevere un nuovo slancio: ottiene dall’università di Pisa l’incarico di Entomologia agraria e quello di direttrice del corrispondente istituto nella facoltà di agraria. Pisa le permette dunque di ricominciare.
Il secondo avvio di carriera si interrompe, però, in modo ancora più drammatico. Nel 1938 vengono promulgate le leggi razziali che, nel mese di settembre, colpiscono il mondo della scuola e dell’università: professori e studenti di razza ebraica sono cortesemente invitati a togliere il disturbo. Devono andarsene immediatamente, cercarsi un nuovo lavoro e, gli studenti, trovare un altro modo per continuare i loro studi. Anche a Enrica naturalmente vengono tolti tutti gli incarichi, all’università e al “Galilei”, e nel mese di dicembre revocata la libera docenza. Margherita Hack ricorda: “Ho vivo il ricordo della professoressa di scienze, una donnina piccola e magra, sempre seria e poco comunicativa, di nome Calabresi, che a metà anno fu sostituita da un’altra più grassoccia, allegra, di cui ho scordato il nome. Il motivo della scomparsa? Si sussurrava che fosse stata cacciata perché era ebrea”. Per gli ebrei l’aria diventa irrespirabile. Perso il lavoro, adesso il problema diventa la sopravvivenza fisica.
La famiglia di Enrica decide di rifugiarsi in Svizzera, che raggiunge dopo un travagliato viaggio per Milano, Sondrio, Tirano e l’accordo di alcuni contrabbandieri. Con una decisione sofferta, non certo un colpo di testa, Enrica decide di non seguirla e anzi di tornare a Firenze (lasciando la casa di famiglia in campagna). “Vado là, perché là è la mia vita”, è la sua scelta. Continua così il suo insegnamento nella scuola ebraica che la Comunità aveva aperto già nell’autunno del ’38 per gli alunni ebrei espulsi dalle scuole pubbliche, medie e superiori. Lavora nella scuola di via Farini, dove dall’università arriva anche il matematico Arturo Maroni e dove vanno ad insegnare – per incarico della Comunità – anche due docenti romane, Emma Castelnuovo e Maria Piazza. Enrica pagherà cara la coraggiosa scelta di restare a Firenze, perché nel frattempo era cominciata la caccia all’ebreo. Erano cominciati i rastrellamenti, casa per casa, da parte dei nazisti e dei fascisti della “Banda Carità”.
Come già per la possibilità di rifugiarsi in Svizzera, Enrica rifiuta i consigli delle amiche che le suggeriscono di nascondersi presso qualche convento o rifugio ospitale. Di fatto, aspetta che la prendano, che arrivino a lei. Sempre Margherita Hack, che era stata una sua studentessa, ha di quei giorni e di un fugace incontro con la sua ex professoressa un ricordo triste e agghiacciante: “Strisciava contro i muri come un animale spaurito. La salutai e avrei voluto parlare, dichiararle la mia solidarietà, ma non ne ebbi il coraggio. D’altra parte anche lei non mi incoraggiò. Come un cane randagio che svicola lungo i muri. Mi fece molta pena. Di più non saprei dire”. Enrica viene arrestata nel gennaio del ’44 nella sua abitazione e portata a Santa Verdiana, un ex-convento trasformato in carcere. Sa che da lì sarebbe stata deportata, via Verona, al lager di sterminio di Auschwitz. Si sottrae a questo tremendo destino ingoiando, il 18 gennaio 1944, un veleno che da tempo portava sempre con sé e che aveva deciso di usare solo in caso estremo, appunto se fosse finita in mano ai tedeschi. Morirà durante la notte fra il 19 e il 20 gennaio, dopo un’agonia lunga e straziante.
Il fluoruro di zinco agisce lentamente. L’aveva ingerito quando aveva capito che il treno per Auschwitz, per lei, era ormai pronto.