Celebrando il 25 aprile: “Ero in Via Rasella”. Pietro Nastasi intervista Mario Fiorentini

Per celebrare in modo appropriato il 25 aprile – una delle ricorrenze più importanti della nostra breve storia repubblicana – riproponiamo la prima parte di una intervista di tanti anni fa, ma sempre straordinariamente attuale, dell’amico Pietro Nastasi (già docente di Storia delle matematiche a Palermo) a Mario Fiorentini, matematico, esponente di primo piano della Resistenza (l’intervista originariamente appare sul numero 39-40 di Lettera Matematica PRISTEM). Mario Fiorentini ci ha lascito ultracentenario nel 2022 ma le sue parole restano ad eterna memoria, testimonianza fondamentale anche per le più giovani generazioni

Mario Fiorentini (Roma, 7 novembre 1918- 9 agosto 2022) è stato un autodidatta con giovanili interessi per l’arte e la cultura in genere che ha partecipato alla lotta partigiana al comando del Gruppo di Azione Patriottica (GAP) “Antonio Gramsci”. Insieme alla compagna della sua vita, Lucia Ottobrini (“Maria”, “Leda”), una giovanissima alsaziana che amava i tedeschi e combatteva i nazisti, ha partecipato alle più importanti azioni militari dei GAP romani, compresa quella di via Rasella. Ancora assieme, i due combatterono in montagna, dietro le linee tedesche nel Lazio. Nel luglio ’44, al Comando della missione “Dingo”, dell’Office Strategics Services (OSS), raggiunse Giorgio Amendola e Sandro Pertini nel Nord Italia (Emilia, Liguria, Lombardia e Piemonte). Nel Nord, Mario assunse i nomi di battaglia di “Gandi”, “Fringuello” o “Dino” e varie volte venne rinchiuso nelle carceri tedesche e delle brigate Nere. Per le loro imprese, sia Mario che Lucia sono pluridecorati al valor militare.

Professore ordinario di Geometria superiore all’Università di Ferrara dal 1° novembre 1971, alle ricerche di Mario Fiorentini è stato dedicato nel 1996 un convegno di Algebra commutativa e di Geometria algebrica, cui hanno partecipato numerosi allievi e colleghi e i cui Atti sono stati pubblicati nella collana “Lecture Notes in Pure and Applied Mathematics”. Come scrive nella Prefazione il curatore (Freddy Van Oystaeyen), il Convegno fu organizzato da due amici di Mario Fiorentini (Ph. Ellia e A. Lascu) e perfettamente ritagliato sulla sua personalità: “Buoni matematici, molte attività culturali, ottimi pranzi e una moltitudine di rapporti amichevoli mai osservati in altri convegni”. Nel volume, uno stupendo articolo di Edoardo Sernesi fa rivivere l’entusiasmo di Fiorentini nell’aver saputo costruire a Ferrara, negli anni ’70, una eccezionale atmosfera di vita matematica.

La produzione scientifica di Mario Fiorentini, iniziata nel 1964 in sintonia con la tradizione della Geometria algebrica italiana, ancora viva a Roma grazie alla scuola di Beniamino Segre, si è concentrata principalmente sui metodi omologici in Algebra commutativa e in Geometria algebrica, in stretto legame con le idee più avanzate di Grothendieck e della sua scuola. I suoi lavori più significativi sono stati raccolti e pubblicati a cura di Paulo Ribenboim.

Non è stato il solo tra i matematici a distinguersi nella lotta al nazi-fascismo con una partecipazione attiva alla Resistenza. A parte il caso ben noto di Lucio Lombardo Radice, anche Jacopo Barsotti passò le linee e combatté contro i tedeschi. Carlo Pucci partecipò come volontario alla battaglia del Senio (tra Ferrara e Ravenna), a fianco degli anglo-americani. Nello stesso settore operò anche Angelo Pescarini. Giovanni Prodi fu arruolato dalla Rsi e finì dopo il 25 aprile 1945 nel campo di prigionia di Coltano. Enrico Magenes aderì alle formazioni partigiane, fu arrestato e deportato. Ugo Morin, Eugenio Curie (“Giorgio”), Giuseppe Zwirner e Gabriele Darbo furono impegnati nella Resistenza all’Università di Padova (Curiel fu poi ucciso a Milano il 24 febbraio 1945 da una squadraccia fascista). Ludovico Geymonat fu attivo nella Resistenza in Piemonte.

 

Pietro NastasiLa tua vita appare divisa in due parti distinte: quella dell’impegno giovanile (culturale, artistico e civile) e quella della maturità tutta dedicata alla ricerca matematica avanzata, che sembra smentire il vecchio detto che solo i giovani possono fare buona matematica. Qual è il filo che collega queste due vite così apparentemente diverse? A differenza di altri partigiani, tu dopo la guerra hai cominciato da capo, in un ambito del tutto nuovo: la ricerca e l’insegnamento della Matematica.

Mario Fiorentini: Forse la volontà, una volontà di ferro che mi ha sempre sostenuto, era la stessa. Avevo fatto le scuole commerciali. Dopo la guerra, per prendere da privatista la maturità scientifica, iscrivermi a Matematica e laurearmi, ci è voluta la stessa volontà che ci voleva nei momenti difficili della Resistenza, richiedendo spesso sacrifici non minori.
Ti dico anche un’altra cosa. Dopo la laurea, sono andato a insegnare Scienze naturali in una scuola media inferiore, a indirizzo commerciale. A quel tempo, nella scuola media c’era una grande selezione. Al primo consiglio di classe, gli insegnanti erano molto duri con i voti, molto selettivi. Un mio collega mi disse subito la sua “filosofia”: all’inizio dell’anno, assegno dei compiti molto difficili e salvo cinque o sei studenti, gli altri li butto a mare e quando li interrogo faccio sempre domande difficili. Io venivo da un’esperienza sociale, di un’altra “pasta”. Rimasi molto impressionato da questo discorso e da allora assunsi la mia “filosofia”: mi occuperò soprattutto degli studenti più deboli e parlerò sempre, a voce alta, a quelli dell’ultimo banco. La mia etica è questa e da allora – anche all’Università – l’ho seguita sempre.

C’è qualche personaggio che ritieni abbia avuto un ruolo particolare nella tua vita?

Sì, debbo tutto – della mia vita scientifica – a Francesco de Finis. Senza De Finis (e senza Lucia) non mi sarei mai laureato in Matematica e, poi, non sarei diventato un professore universitario. De Finis mi ha insegnato a usare la volontà come strumento efficace, a non farti mai fermare per via quando conduci una battaglia che ritieni giusta e necessaria, a non dimenticare mai i tuoi compiti di insegnante e di educatore, soprattutto verso i diseredati. De Finis era un libero pensatore, come me, ma aveva due modelli, due “santi” che venerava: Antonio Gramsci e Giuseppe Di Vittorio (anche lui di Cerignola).

Tu, Lucia, Carla Capponi e Rosario Bentivegna eravate a via Rasella il 23 marzo del ’44 e avete poi assistito alla successiva rappresaglia delle Fosse Ardeatine, in cui 335 ostaggi furono massacrati dai nazisti. Le dichiarazioni di Kesserling e Kappler in tribunale hanno dimostrato la improponibilità della tesi che voi consegnandovi ai tedeschi avreste evitato l’eccidio. Sai meglio di chiunque altro che, a più di 50 anni di distanza da quell’episodio, il dibattito sulla legittimità di questo tipo di azioni della Resistenza non si è ancora chiuso. Come hai vissuto il trauma delle leggi razziali? Come è avvenuta la tua adesione alla Resistenza? Qual è la tua opinione sui fatti di via Rasella e le recenti polemiche?

Ascolta: il 16 ottobre 1943, vennero i tedeschi a via Capo le Case (una traversa di via del Tritone, a Roma), dove abitavo con la mia famiglia. Mio padre era ebreo, ma non aveva mai avuto rapporti con la comunità e perciò non era nelle loro liste. I tedeschi in realtà cercavano un mio zio, di cui in qualche modo avevano avuto il nome. Io ero già nella Resistenza. Li vidi arrivare e feci in tempo a scappare, rifugiandomi in via Margutta, a casa dei pittori Emilio Vedova e Giulio Turcato. I tedeschi presero i miei genitori e li portarono via con tutti gli altri rastrellati; poi mia madre inventò uno stratagemma e riuscirono a fuggire. Cambiavamo continuamente nascondiglio e qualche volta dormivo presso una zia che abitava dall’altro lato di via del Tritone, proprio vicino a via Rasella. Fu da lì che vidi passare il battaglione Bozen (non passavano tutti i giorni, come poi si è detto). Mi misi in allerta, subito. Ho rivisto il verde marcio di quelli che erano venuti a prendere i miei genitori. Psicologicamente l’ho vissuta così. E questo può darsi che non sia un sentimento molto nobile, quasi di vendetta, però io ci ho messo anche quello.

In un certo senso, come ha scritto Alessandro Portelli, via Rasella comincia il 16 ottobre ed è una risposta anche alla retata e alla deportazione degli ebrei romani. Bisogna tener conto di questo perché, in tutte le discussioni sulla vicenda, la polemica antipartigiana parla della rappresaglia come se fosse solo la reazione a posteriori ad una provocazione partigiana, come se la violenza a Roma cominciasse da via Rasella. Ma Roma era tutt’altro che una “città aperta”; era una città occupata e in guerra, dove le violenze degli occupanti erano quotidiane.

Roma era usata dai tedeschi come un retrovia del fronte, continuamente attraversata dai convogli militari tedeschi; anche per questo gli alleati non la riconobbero mai come “città aperta”. Una città aperta non può essere occupata. Perciò l’azione di via Rasella – non da sola, perché va vista insieme a tutte le altre azioni che abbiamo fatto – è stata in un certo senso il culmine, il coronamento di un programma che ci eravamo dati già dal mese di ottobre del ’43 e che ci veniva indicato anche dagli Alleati e dalla direzione politica del movimento di liberazione. Dovevamo attaccare i fascisti e i tedeschi, rendere insicura la loro permanenza a Roma. Gli Alleati erano in serie difficoltà sul fronte di Anzio, stavano per essere rigettati in mare con conseguenze catastrofiche per la guerra. La Special Force inglese e l’OSS statunitense avevano mandato delle missioni paracadutate a Roma e continuavano ad esortare ad attaccare duramente i tedeschi. Non dovevano essere padroni della città. In questo senso vanno intese le azioni che precedettero via Rasella: l’attacco ai tedeschi fuori dal cinema Barberini, all’albergo Flora a via Veneto, alla sfilata fascista a via Tomacelli (solo per citare le più clamorose); e poi, ancora, in via Veneto, a piazza dell’Opera, in via Crispi, a Villa Borghese. A nessuna seguì automaticamente una rappresaglia. Via Rasella fu solo una delle azioni che avevamo programmato per quei giorni: stavamo preparando un assalto al carcere di via Tasso e un’altra azione contro l’adunata fascista per l’anniversario della fondazione del partito, lo stesso giorno. Poi le circostanze fecero sì che le altre azioni non si potessero realizzare.

Una critica all’azione di via Rasella riguarda la sua presunta inutilità militare. Tu, più volte, hai invece sostenuto che ha avuto un peso rilevante anche sul piano militare strategico.

Ne sono stato convinto fin dall’inizio e la mia convinzione è stata poi suffragata da alcuni fatti delle settimane successive. Il primo è stata la decisione del comando militare tedesco di fare divieto alle sue truppe di utilizzare la città per i trasporti di truppe o di materiale o di uomini. Questo è un primo risultato di natura militare e strategica rilevante, perché i tedeschi furono costretti a “allargare” e ad aumentare il percorso, girando intorno alla città o anche a esporsi ai bombardamenti e alle azioni partigiane lungo le strade. Il secondo fatto è rappresentato dall’enfasi e dal rilievo dato alle azioni dei partigiani romani dalle radio alleate. Roma è stata l’unica capitale europea che ha opposto una resistenza così massiccia all’occupazione tedesca. La terza conferma mi è venuta quando, attraversate le linee, sono andato al Comando del corpo di spedizione francese. Là, sotto una grande tenda, insieme allo stato maggiore, abbiamo discusso e mi sono reso conto che conoscevano bene l’attività dei partigiani romani. Sapevano che avevamo attaccato i tedeschi ripetutamente, e in particolare a via Rasella, colpendo duramente la gendarmeria tedesca. Ma non solo a via Rasella. In quella occasione, feci una relazione generale che li impressionò molto. Il generale Alphonse Juin a un certo momento intervenne, pronunciando due volte la parola: formidable, formidable!

Si parla poco del ruolo delle donne nella Resistenza. Scriveva Ada Gobetti: “nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione, a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana”. Carla Capponi, nel suo bellissimo volume “Con cuore di donna” (Il Saggiatore, Milano, 2000), ha finalmente rotto il silenzio perché, per dirla con i versi di Ismail Matter, “i ricordi sono come uova d’uccello nel nido:/ l’anima li riscalda per lunghi anni/ e d’un tratto essi rompono il guscio/ disordinatamente, inesorabilmente”. Carla Capponi è uscita dal riserbo per raccontare la “sua versione dei fatti” e spiegare ai giovani che voi eravate esattamente come loro, che la misura dei sentimenti è la stessa, sia che si superi un esame difficile a scuola sia che si riesca a sfuggire ad un arresto delle SS gettandosi da una finestra. Lucia, la compagna della tua vita, ha detto a Marina Addis Saba, (autrice di un saggio sulle “Partigiane”; Mursia, Milano, 1998) di non voler raccontare niente di particolarmente eroico: “eravamo gente costretta a lottare e non guerrieri in cerca di gloria”. È stato veramente così? Quali sono state le motivazioni che, per esempio, hanno spinto Lucia a diventare antifascista?

Sì, è stato così. Per quanto riguarda Lucia, conviene cedere la parola a lei stessa.

Lucia Ottobrini: La principale motivazione della mia scelta antifascista fu sicuramente l’entrata in guerra contro la Francia, la mia seconda patria, l’infamia di un’aggressione contro un Paese che era stato già piegato dai tedeschi.
Poi le leggi razziali. Molta gente, specie nel “popolino”, aveva creduto in una matrice proletaria del fascismo e in una certa propensione ad occuparsi della povera gente e questo spiega il consenso di massa che il fascismo, e il fascino personale di Mussolini, avevano conseguito.
Con i fallimenti della campagna di Grecia e di Russia, si capì subito però che la guerra non sarebbe stata la passeggiata imprudentemente promessa. Fu il fatto di aver passato la prima parte della mia esistenza in un ambiente proletario e i miei trascorsi in Francia che fecero maturare in me la coscienza di stare dalla parte degli operai e del popolo.
All’inizio del 1943 (sono nata nell’ottobre 1924, avevo da poco compiuto 18 anni) conobbi Mario. Fu una fiammata che non si è mai spenta né attenuata. Fu subito il mio ragazzo e il mio compagno di tutta una vita; insieme a lui ho superato vicende difficili. Tramite Laura Lombardo Radice, mi fu assegnato il primo incarico politico: la raccolta di indumenti, medicine e cibo per i prigionieri politici. Così conobbi le sofferenze dei perseguitati antifascisti. Per me fu una rivelazione. Incontrai, accanto a Mario, uomini e donne antifascisti, persone di estrazione borghese che poi sarebbero diventate famose, ma anche operai, artigiani e piccoli negozianti.

Fu un periodo splendido: Mario e Plinio De Martiis avevano formato una compagnia teatrale, che doveva far conoscere gli autori classici del teatro di prosa al popolo, evitando le rappresentazioni degli autori cosiddetti borghesi. Avevano pensato ai cinema di periferia, in modo da raggiungere un pubblico popolare fino ad allora escluso dal teatro. Iniziammo dal cinema Mazzini con una meravigliosa interpretazione di Gassmann dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello, ma incontrammo subito delle difficoltà finanziarie perché né il proletariato né il ceto medio corsero ai nostri spettacoli. Attori e registi si ridussero la paga e qualcuno addirittura vi rinunciò. Facemmo una sola rappresentazione al Teatro delle Arti. Avevamo progettato che Gassmann saltasse sopra un tavolo e cantasse l’Internazionale in francese. I registi della nostra compagnia erano Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Gerardo Guerreri, Vito Pandolfi, Mario Landi. Gli attori erano Gassmann (stupendo per la sua classe, il suo ardore, la sua cultura), Lea Padovani, Nora Ricci, Antonio Pierfederici, Vittorio Caprioli, Carlo Mazzarella, Alberto Bonucci, Gianni Santuccio, Ave Ninchi, Nino Dal Fabbro, i fratelli Ettore e Corrado Gaipone e tanti altri. Ho dimenticato molti nomi, ma eravamo tutti giovani, entusiasti e antifascisti. Dopo l’8 settembre, la situazione divenne confusa sia sul piano militare sia su quello politico. Subito dopo l’armistizio, entrai tra i partigiani combattenti nella quarta zona, poi nei GAP di zona, quindi nel GAP centrale “Antonio Gramsci” diretto da Mario (in stretto contatto con il GAP “Carlo Pisacane”, diretto da Rosario Bentivegna). Ho combattuto avendo al mio fianco carabinieri, graduati, ufficiali, civili di idee liberali o socialiste, comunisti e democristiani, ebrei e preti, monarchici e repubblicani, tutti uniti dal comune intento di cacciare i nazisti. Il fascismo, il nazismo, il franchismo erano modelli da respingere, perché avevano calpestato le libertà, e la stragrande maggioranza dei partigiani si batteva per la libertà.

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