Ci fa piacere ricordare a pochi mesi dalla scomparsa il grande logico e matematico torinese Gabriele Lolli con l’ultima intervista che ha rilasciato a Prisma, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia
È un romanzo di formazione autobiografico. Chi si racconta e ripercorre gli anni della propria giovinezza è Gabriele Lolli, matematico, uno dei più importanti e noti logici italiani degli ultimi decenni. Torinese, ha insegnato nelle università di Salerno, Genova e Torino per poi concludere la propria carriera come professore ordinario di Filosofia della scienza alla Normale di Pisa. La teoria degli insiemi e l’applicazione della logica all’informatica e ai primordi dell’Intelligenza artificiale sono stati i suoi principali temi di ricerca ma, accanto a questi argomenti più propriamente scientifici, Lolli ha sviluppato un’intensa attività divulgativa dedicando particolare attenzione alla storia della logica. Tra i suoi libri più noti anche Matematica come narrazione (tradotto in inglese da MIT Press) scritto per cogliere le connessioni tra il mondo delle dimostrazioni matematiche e quello, così apparentemente lontano, del racconto delle storie. Ritratto di un logico da giovane. Torino 1959-1966 (edizioni Dedalo) è la sua ultima fatica editoriale.
Per te “formidabili” sono stati gli anni Sessanta, quelli in cui stava maturando il grande impegno politico del ‘68.
Si, ma per quegli anni il mio primo ricordo va al basket. Nel 1955 ero rientrato a Torino da Bari, dopo avevamo seguito mio padre, militare di carriera, e mi ero iscritto al liceo classico “D’Azeglio”. Un liceo prestigioso ma che all’inizio non suscitò in me particolare interesse. Al ginnasio ero diligente ma niente di più. Abbastanza apatico, direi. A scuotermi da questa passività nei confronti dello studio fu lo sport, il basket. Giocavo da play, ero già abbastanza alto ma non a sufficienza per essere un’ala o un pivot. Nella mia stanza i libri, per il momento, erano solo quelli di scuola.
Quando cominciano ad aggiungersene altri?
Nell’ultimo anno di liceo, quando ho incontrato un professore più stimolante. Cominciai a pensare che non dovevo subire l’inerzia della vita ma riflettere in modo critico sulle mie abitudini e su come passavo la giornata, magari a partire dalla prassi che mi sembrava mi pesasse addosso nel modo più passivo, la religione. Ai libri di scuola si aggiunge così uno scaffale per le pubblicazioni cattoliche. Frequento qualche incontro di discussione religiosa, dove tra gli altri c’era anche Vattimo. Tramite le riviste, entro in contatto con quelli che poco dopo sarebbero stati chiamati cattolici di sinistra o del dissenso. Don Mazzolari e don Milani diventano per me importanti punti di riferimento. Nel 1960 partecipo a un “campo” organizzato dai valdesi su “Cristiani e marxisti” e qui conosco Vittorio Rieser e Renato Panzieri. Il mondo valdese, che frequenterò fino al 1967, mi affascina e inevitabilmente la mia biblioteca si arricchisce della sezione “protestantesimo”.
Con Rieser e Panzieri entriamo negli anni dell’impegno politico.
Impegno sociale, direi. Vittorio Rieser era figlio di Tina Pizzardo, che si era laureata con Peano negli anni Venti; sarà uno dei principali esponenti del gruppo extraparlamentare di Avanguardia Operaia. Renato Panzieri era un socialista che si era distinto come funzionario del suo partito in Sicilia. Un altro importante maestro per la mia formazione fu Goffredo Fofi, poi importante e noto critico cinematografico e teatrale. In quegli anni, a Torino si avvertivano delle avvisaglie della ripresa della lotta sindacale e molti intellettuali, come Panzieri e Fofi, si trasferirono a Torino per vivere questo laboratorio socio-politico. Nel 1961 Panzieri fonda la rivista Quaderni Rossi, ritenuta una delle ispiratrici del grande sciopero della Lancia di quell’inverno e snodo molto importante per la formazione della “nuova sinistra”. Nella redazione c’erano anche Mario Tronti, Alberto Asor Rosa e Toni Negri, che poi ne uscirono. Anche per me il 1961 fu un anno cruciale: continuavo ad avvertire l’ipoteca cattolica, quella calvinista che la stava surclassando e il nuovo e crescente interesse per le lotte operaie e l’organizzazione capitalista del lavoro. Leggevo Marx e tutto il movimento marxista nelle sue ramificazioni. Nella mia biblioteca si apriva una nuova sezione, che presto sarebbe diventata quella maggiore: marxismo, economia e sociologia.
Con tutto questo la matematica non c’entra molto. O sbaglio?
Il fatto è che nel 1960 avevo finito il liceo classico e dovevo scegliere il corso di laurea a cui iscrivermi.
E allora ti sei iscritto a Matematica?
Tutt’altro. Non so per quali contorte elucubrazioni ma pensai di iscrivermi ad Agraria. Lo feci e nello stesso tempo presi contatto con qualche studente della facoltà per informarmi su che cosa mi aspettasse. Quelle poche informazioni furono sufficienti a farmi cambiare idea. Mi fiondai immediatamente alla segreteria dell’università raccontando una storia pietosa, che la morte improvvisa di mio padre mi costringeva a rinunciare all’università, per ritirare la domanda, i documenti e le ricevute dei versamenti. Detto fatto, portai i documenti e le ricevute alla segreteria di Lettere e mi iscrissi al corso di laurea in Filosofia.
Le tue pagine su alcune lezioni di filosofia a cui hai assistito da matricola sono tra le più spassose del libro. Ma anche la descrizione di alcune lezioni, e qui ti anticipo, a cui assisterai come studente di Matematica non sono da meno.
Dopo il primo anno a Filosofia, decisi che non potevo sprecare la vita in una nebbia di parole vuote. Dovevo cambiare studi. Potevo passare a Economia ma a Torino non veniva insegnata economia politica e la facoltà laureava piuttosto attuari e commercialisti. Allora, su consiglio di Vittorio Rieser, passai a Matematica con l’intento di studiarla bene e poi proseguire con gli studi economici. Quando alludevi ad alcune descrizioni divertenti, forse ti riferivi alle lezioni di quel docente talmente perfezionista che in tutto il corso era riuscito a presentare solo i primi assiomi della topologia e a spiegare unicamente le prime 30 pagine del libro di testo. O di quell’altro docente che per catturare il nostro interesse lanciava in aria un libretto universitario, come fossimo al circo, e ci sfidava a studiare la sua traiettoria. Alla fine mi sono laureato con Francesco Tricomi, una personalità certamente esuberante ma a mio giudizio il più significativo esponente della facoltà in quel periodo, per cultura scientifica e anche per l’aspetto umano.
Tricomi era però un analista. Quando sei diventato un logico?
Dopo la laurea, ho vissuto delle brevi esperienze di lavoro all’IBM e alla Fiat. Ma non era la mia strada. Così come non era la mia strada il marxismo di Panzieri, teoricamente affascinante ma che nella pratica degli scioperi si mostrava utopistico. La svolta c’era già stata quando un mio amico, e poi collega, mi aveva invitato a seguire qualche riunione del Centro di Studi Metodologici, costituito a Torino per sviluppare anche in Italia gli studi di logica e di filosofia della scienza. Al Centro ho conosciuto Ludovico Geymonat, che l’aveva fondato nel 1948 assieme ad altri colleghi. Gli vanno riconosciuti indubbi meriti di lungimiranza nella politica culturale e nella sua attività di organizzatore culturale. Dopo, seguendo dei seminari che Geymonat organizzava periodicamente a Milano, ho visto come lui e il suo gruppo reagirono con entusiasmo ed eccitazione al risultato che Paul Cohen negli Stati Uniti aveva ottenuto nel 1963 a proposito dell’indipendenza dell’ipotesi del continuo: ”Non esistono cardinalità fra quella dell’insieme dei numeri naturali e quella dell’insieme dei numeri reali” dal sistema di assiomi di Zermelo-Fraenkel e dall’assioma della scelta. Non era la matematica fredda e compassata che avevo conosciuto a Torino. Fui contagiato da quell’entusiasmo e da quella partecipazione. Volevo anch’io far parte di quel gruppo e studiare logica!