Il clima e il corto circuito della conoscenza

Gli effetti dei cambiamenti climatici sembrano ormai drammaticamente evidenti. Periodi di siccità si alternano a tempeste tropicali, evidenziando un’alterazione del clima che crea apprensione e alimenta polemiche in merito a cause e responsabilità. Sullo sfondo, le proteste eclatanti degli attivisti del clima denotano un’insofferenza al dialogo radicata sia nella sfiducia verso ogni tipo di istituzione, sia nella convinzione della giustezza delle proprie tesi. Già lo scorso maggio, all’indomani delle alluvioni che hanno devastato il nord Italia, gli attivisti di Fridays for Future e Ultima Generazione avevano occupato il Dipartimento di scienze della Terra all’università La Sapienza di Roma, per protestare contro l’uso dei combustibili fossili. Mentre ascoltavo le loro tesi, in particolare quella secondo cui la geologia sarebbe al soldo delle società petrolifere, mi è venuta in mente una domanda che già nel Settecento si era posto un reverendo inglese appassionato di matematica. La domanda recitava più o meno così: quanto possiamo essere certi di ciò che pensiamo di sapere? Partendo da questa domanda per nulla banale, Thomas Bayes elaborò quelli che oggi conosciamo come Teorema di Bayes e calcolo bayesiano. Ma le implicazioni filosofiche della sua domanda trascendono la matematica. Riguardano il modo in cui una conoscenza ritenuta “certa a priori” possa determinare un risultato apparentemente corretto, ma che in realtà non lo è. La legge della gravitazione di Newton, per esempio, ha funzionato egregiamente seppur basata su una certezza a priori rivelatasi poi inesatta: che lo spazio fosse semplicemente la distanza tra due masse che interagiscono e non esso stesso un’entità fisica in grado di interagire con le masse. Fu Einstein a correggere l’errore, immaginando lo spazio non come vuota distanza ma come un “mezzo” in grado di deformarsi sotto l’effetto di una massa. Probabilmente, saremmo andati sulla Luna anche senza questa elegante e controintuitiva correzione alla legge “universale” di Newton. Tuttavia, non avremmo scoperto altre cose interessanti come per esempio il principio della “lente gravitazionale”, vale a dire la perturbazione della luce stellare quando questa attraversa uno spazio deformato da una massa, oggi utilizzata nella ricerca di pianeti fuori dalla nostra galassia. Certezze a priori errate possono dunque avere effetti distorcenti tutto sommato piccoli, ma possono impedire importanti passi in avanti della conoscenza. Più ascoltavo gli attivisti del clima e più le loro motivazioni assumevano i contorni di certezze a priori sulle quali non c’era da discutere. Escrescenze di una certezza a priori dei nostri giorni ancora più diffusa, quella secondo cui qualunque dinamica ambientale è un male che va ricondotto al cambiamento climatico. Riconoscere nel cambiamento climatico i segni e i rischi di una certezza a priori non vuol dire negare che alluvioni e siccità possano essere anomalie di un clima instabile e che la causa della sua instabilità possa essere ricondotta anche all’uomo. Vuol dire semplicemente tenere a mente un principio vitale per il progresso delle conoscenze, ben sintetizzato dal quesito del reverendo Bayes: nessuna teoria dovrebbe diventare un dogma, una verità che non si possa mettere in discussione. Se non si comprende questo aspetto basilare del modo di operare della scienza non ci può essere una vera comunicazione tra società e comunità scientifica. E quanto questa comunicazione sia oggi necessaria, e al contempo debole e distorta, lo si è constatato durante la pandemia. Questa difficoltà comunicativa dipende anche da una concezione della scienza che andrebbe ripensata: le si chiede sempre più di essere al servizio della società, percependo la sua utilità sociale limitatamente alla capacità di fornire tecnologie per risolvere il problema contingente del momento. L’utilità sociale di “scienze storiche” come la geologia non può però manifestarsi appieno se applichiamo questo metro invece di considerare il valore di conoscenze utili a prevenire quegli stessi problemi per cui prima o poi dovremo cercare soluzioni. Una volta classificate come poco utili, queste discipline finiranno per diventare un ramo secco. Verranno prima tagliate dalla lista delle attività da finanziare, quindi dalle carriere da scegliere, poi dalla didattica e, infine, da quella cultura scientifica di base senza la quale il mondo scientifico e la società non sono in grado di comunicare. Questo circolo vizioso potrebbe spiegare paradossi come l’ostilità verso i vaccini in piena pandemia o verso una disciplina come la geologia quando a essere in pericolo è la salute della Terra. Preoccupati per l’ambiente, si pensa alla geologia solo per via del suo “diabolico” legame con i combustibili fossili, senza considerare quanto la storia della Terra può dirci sui cambiamenti ambientali. Ci dice per esempio che il clima cambia rapidamente anche per sua natura e che non può essere stabilizzato come se avessimo un termostato; che se anche avessimo il termostato del clima e lo regolassimo su “clima ottimale”, continueremmo ad avere problemi. Problemi che derivano non solo dal continuare a bruciare combustibili fossili ma anche dal pretendere di poter continuare a consumare sempre più energia, basta che sia “pulita”. L’assioma che mette la CO2 al centro di ogni problema climatico-ambientale è vero quanto la legge universale di Newton. Allo stesso modo, può sviare dal comprendere la reale complessità di certi fenomeni e dei problemi connessi. Il rischio è che le certezze a priori sul cambiamento climatico si prestino a essere strumentalizzate e inducano a credere che, una volta eliminata la CO2, si potrà continuare tranquillamente con tutto il resto. Si potrà, per esempio, continuare a urbanizzare lo spazio vitale dei fiumi, deviandoli e tenendoli sotto controllo in alvei innaturali che non si possono più adeguare ai ritmi delle stagioni, certi che lì rimarrebbero se il cambiamento climatico non facesse piovere come “mai a memoria d’uomo”. Più che alla nostra memoria, forse dovremmo affidarci a tutta la scienza di cui disponiamo e incominciare a concentrarci anche su ciò che potremmo non sapere, nel caso in cui le nostre certezze non si rivelassero tali. All’epoca del reverendo Bayes, finanziare le baleniere per reperire l’olio con cui illuminare Londra poteva sembrare più utile che finanziare esperimenti su uno stravagante fenomeno chiamato elettricità. Più o meno nello stesso periodo, si iniziava a chiedere ai primi geologi come reperire combustibili alternativi all’olio di balena, per via del numero crescente di quartieri e città da illuminare. Ecco le origini del patto con il diavolo della geologia. È curioso pensare che, dal punto di vista di un ipotetico ambientalista di fine Settecento, passare dal massacro delle balene allo sfruttamento dei giacimenti di carbone sarebbe sembrata una gran bella transizione energetica. Ciò che la scienza fa, risponde a ciò che le chiediamo di fare e può apparire “buono” o “cattivo” in base a ciò che crediamo di sapere. Così come le certezze su ciò che crediamo di sapere possono essere fondate oppure no, a seconda di quanto è ampio il contesto di conoscenze con cui siamo disposti a confrontarle. Tutto questo ha a che vedere con la nostra capacità di produrre cultura scientifica, oltre che tecnologia. Investire tanto sull’una quanto sull’altra è l’unico modo per affrontare problemi contingenti ed evitare le insidie insite nelle nostre certezze a priori. È su questo che si fonda l’utilità sociale della scienza, prima ancora che sulla singola scoperta.

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