Se una teoria viene contraddetta dai fatti, di solito si rivede la teoria. Viceversa, nel mondo dell’istruzione la colpa è sempre dei fatti che non vogliono adeguarsi alla teoria. Non sono mai le norme a essere astruse, è chi deve applicarle che non fa abbastanza. Se questo vale per la scuola in genere, ancora di più vale per l’inclusione. Sull’inclusione, sui suoi valori, sui suoi scopi e sui suoi metodi sono state scritte cose sublimi: le leggi prescrivono Piani educativi individualizzati (Pei), progetti, procedure. Ma che cosa succede davvero? La realtà è che un anno di specializzazione proietta i docenti a un confronto con le disabilità più disparate, con i disturbi cognitivi, relazionali, emotivi più diversi. La realtà è che fra un quarto e la metà dei docenti di sostegno, a seconda delle regioni, non ha neanche il titolo di specializzazione. E che, anche in assenza di turn over, le università impiegherebbero una dozzina di anni a formare il numero di insegnanti di sostegno che oggi serve. La realtà è che l’insegnante di sostegno che affianca il ragazzo nelle ore di chimica ha magari la laurea in lettere e quello che è ingegnere si ritrova al liceo delle scienze umane. La realtà è che lo specialista che ha redatto la diagnosi è inafferrabile e la stessa famiglia fatica a interagire con i servizi sanitari.
Ma la realtà più preoccupante è che mancano i dati per delineare l’efficacia e l’efficienza delle procedure e degli assetti relativi all’inclusione, così come definiti oggi dalle norme. Sappiamo che ogni anno aumentano i casi di alunni certificati o diagnosticati Dva (diversamente abili): le rilevazioni Istat ci dicono che nell’anno scolastico 2022/2023 sono stati quasi 338.000 gli alunni con disabilità che hanno frequentato le scuole di ogni ordine e grado, il 4,1% del totale degli iscritti (+7% rispetto al precedente anno scolastico; erano 126.000 nel 2000/01). I docenti di sostegno sono il 10% in più. Ma non sappiamo a cosa sia dovuta questa crescita. Ai certificati 104 si aggiungono, a rendere il quadro più complesso, i diagnosticati Dsa e gli alunni con “Bisogni educativi speciali”, fino ad arrivare a un totale di circa un milione di studenti destinatari di didattiche “speciali”.
Ogni anno, i dati Invalsi ci fanno sapere come funziona la scuola italiana. Nulla invece sappiamo di quanto la scuola sia utile specificamente a chi è portatore di disabilità o necessita di didattiche speciali. Come partecipa la scuola al pieno dispiegamento delle potenzialità di ognuno di quel milione di alunni?