Cos’è la pace? È un’utopia definibile come l’assenza del proprio opposto, la guerra, che però è intrinseca al meccanismo darwiniano del progresso liberale? Recentemente ho partecipato all’incontro Maths and peace organizzato da Giorgio Gallo alla conferenza della European peace research association EuPRA24 – Theories and practices of peace, hope and resistance in troubled times, svoltasi a Pisa (abstracts su www.euprapeace.org/events/conferences/pisa2024).
Valentina Bartolucci, docente presso uno dei pochi corsi di laurea in Italia in Scienze per la pace, cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti (Classi L-37 e LM81), ha ben chiarito il valore della matematica come strumento per riconoscere e superare i limiti delle nostre rappresentazioni concettuali delle situazioni reali. Lo ha fatto con l’esempio di Ecuador e Perù e di come raggiunsero il cessate il fuoco nella guerra del Cenepa del 1995. Nella spartizione delle regioni di confine superarono la dicotomia binaria del “mio” e “tuo” introducendo, per così dire, il valore di verità fuzzy, “nostro”. Sono proprio i teoremi matematici di incompletezza e di non esistenza come quelli di Gödel, Arrows, Balinski-Young ecc. a indicare le strategie per uscire dai vicoli ciechi che conducono ai conflitti. Forse fu Lev Tolstoj in Guerra e pace il primo a illudersi di diventare il Newton della Storia applicando il calcolo infinitesimale per spiegare la campagna napoleonica in Russia e lasciandoci passi memorabili come il seguente: “I primi 15 anni del secolo XIX in Europa presentano uno straordinario movimento di milioni di uomini […] gli storici ci espongono […] gli atti di alcune decine d’uomini in uno degli edifici della città di Parigi, chiamando questi con il nome di rivoluzione [… ma [è…] la somma delle volontà umane che ha prodotto la rivoluzione e Napoleone e soltanto la somma di queste volontà li ha tollerati e annientati”.
L’incontro di Pisa si è caratterizzato per una clamorosa questione di genere: a parte le relatrici, la partecipazione era solo maschile. Preziosa e inversa era invece questa proporzione negli altri eventi. Ne approfondisco uno perché mette in luce il fallimento della concezione della pace tanto sbandierata dal novembre 1989 in poi, quella di pace come commodity, come merce esportabile, ovvero la (neo-)liberal peace, la pace che discende dal “libero mercato”. Il teatro è il conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh. “I negoziati rimangono ancora troppo androcentrici, marginalizzano la voce delle donne e il coinvolgimento collettivo, perpetuando così le strutture di potere nazionalistiche patriarcali”.
Non di neutralità ci ha parlato Sevinj Samadzade ma di resistenza, in primo luogo femminile: “La violenza degli oppressi non è la stessa di quella degli Stati”. La pace, ci ha detto, può essere trovata solamente superando l’immaginario della pace neo-liberale (darwiniana, aggiungo) che altro non è che una nuova forma di colonialismo.