Pierangelo Gobbo ha 36 anni e l’entusiasmo di chi ama il proprio lavoro. Chimico e ricercatore di professione, fare ricerca per lui significa percorrere strade ancora inesplorate: con determinazione, curiosità e tanta voglia di imparare. Strade che da Cittadella, in provincia di Padova, l’hanno portato prima in Canada e poi nel Regno Unito. Dopo il liceo classico, ha conseguito la laurea in chimica nell’ateneo patavino per poi andare oltreoceano, alla University of Western Ontario. Da lì all’università di Bristol dove ha lavorato con Stephen Mann, chimico e direttore del Centre for Protolife Research. Sono stati anni in cui ha mosso i primi passi nel campo della ricerca sulle cellule sintetiche acquisendo le tecniche necessarie per sintetizzare, ingegnerizzare e caratterizzare i “mattoncini della vita”. Il suo obiettivo ora è riuscire ad assemblare cellule artificiali in materiali innovativi che mimino i tessuti viventi. “Creare quelli che chiamiamo tessuti sintetici o materiali protocellulari”. Il progetto su cui sta lavorando, e per il quale si è aggiudicato un finanziamento di circa 2 milioni di euro del Consiglio europeo della ricerca, lo porterà a inoltrarsi dove chimica sintetica, scienza dei materiali e ingegneria tissutale si interfacciano. Gobbo ha allestito il suo nuovo laboratorio all’università di Trieste perché nel Dipartimento di chimica dell’ateneo triestino, tassello di un territorio ricco di istituti scientifici, ha individuato il terreno fertile dove far crescere le sue protocellule: “Cellule completamente sintetiche in grado di auto-assemblarsi in materiali che mimano le proprietà dei tessuti viventi e sono in grado di integrarsi e interagire chimicamente e meccanicamente con le cellule viventi”. Costruire cellule sintetiche, combinando biotecnologia e bioinformatica, è una delle grandi sfide scientifiche del ventunesimo secolo. Come illustra la biofisica Petra Schwille su Nature, da oltre vent’anni ricercatori e ricercatrici stanno cercando di esplorare le frontiere della vita creando cellule artificiali, identificando quindi quali componenti sono necessari per realizzare un sistema vivente e, in definitiva, facendo luce sui principi fondamentali che definiscono la vita. “La biologia sintetica – puntualizza Gobbo – è un campo di ricerca che vuole rispondere a una domanda fondamentale: che cos’è la vita? Io, da chimico, mi chiedo quale sia l’origine molecolare della vita e la protocellula, oltre a essere una tecnologia dalle promettenti applicazioni, è uno strumento fondamentale per capire meglio l’intricato funzionamento degli elementi che contraddistinguono la base della vita”. La biologia sintetica è dunque un nuovo approccio allo studio della vita, una nuova frontiera della biologia che non si limita a descrivere gli esseri viventi. In laboratorio le ricercatrici e i ricercatori sono come ingegneri che programmano il software della vita. Derek Woolfson dell’università di Bristol ed Elizabeth Bromley della Durham University tirano in ballo il fisico Richard Feynman: la sua frase (“quello che non posso creare, non lo capisco”) è diventata una sorta di mantra per chi lavora al design e alla progettazione di componenti e sistemi biologici artificiali. Il Dna, in fondo, è un codice che ora sappiamo leggere ma anche scrivere: allora, perché non costruire in laboratorio un programma genetico per fissare il comportamento di una cellula? Programmare una cellula non è un’impresa facilissima ed è ancora una sfida aperta. Craig Venter, lo scienziato imprenditore che nel 2000 è arrivato primo al sequenziamento del genoma umano nella sfida con il consorzio pubblico, è stato uno dei pionieri anche in questo campo. Nel 2010, infatti, dalle pagine di Science ha annunciato di avere creato in laboratorio una cellula capace di autoreplicarsi: la prima specie ad avere come “genitore” un computer. “In laboratorio – spiega Gobbo – si possono usare due diversi approcci per creare una cellula sintetica. Quello usato da Venter è il cosiddetto approccio top down: si parte da materiale biologico che viene ricreato “sintetico” e introdotto in una cellula precedentemente svuotata del suo genoma. La cellula usa dunque la propria macchina di trascrizione e traduzione per far trascrivere e tradurre il nuovo genoma sintetico. Così si crea una cellula controllata dalle istruzioni di un genoma preparato a tavolino. L’altro approccio è il cosiddetto bottom up e mira a sintetizzare la cellula da zero, a partire da molecole, materiali e reazioni chimiche”. Se l’approccio top down è “un approccio biomimetico, che cerca di imitare la vita come la conosciamo ingegnerizzando delle cellule – spiega ancora Gobbo – l’approccio bottom up è un approccio bioispirato. Prende cioè ispirazione dalla vita per mettere a punto materiali ingegnerizzati, programmati per svolgere una determinata funzione. Materiali che, una volta svolto il loro compito, si decompongono senza problema di inquinamento biologico”. È questo secondo approccio quello che Gobbo usa per la sua attività di ricerca. Il problema nella costruzione delle protocellule riguarda l’assemblaggio dei componenti. Perché, come commenta Stephen Mann sulle pagine di Chemistry World, “puoi avere tutti i componenti, proprio come puoi avere tutti i bit e i pezzi di un computer ma, se non vengono correttamente integrati e alimentati, rimangono semplicemente dei pezzi di silicio”. “La mia ricerca – puntualizza Gobbo – è curiosity driven: è la curiosità a motivare il mio lavoro, l’ambizione di rispondere alla domanda fondamentale: che cos’è la vita?”. Al momento, la biologia sintetica sta muovendo ancora i primi passi ma c’è chi, come il genetista Andrew Hessel, è convinto che questa frontiera della biologia rivoluzionerà la nostra vita come ha fatto l’informatica e, in generale, come hanno fatto le tecnologie dell’informazione. Le aspettative sono alte: programmare cellule artificiali per risolvere molteplici problemi: “Riuscendo a creare una cellula da zero – afferma Gobbo – si attuerebbe un’importante rivoluzione biotecnologica: potremmo infatti ingegnerizzare cellule per svolgere compiti specifici, come digerire le plastiche, che oggi infestano gli oceani di tutto il mondo, oppure assorbire la C02 atmosferica contribuendo a controllare l’effetto serra. Oppure potremmo programmarle per produrre e consegnare farmaci”. Gobbo ha un obiettivo ambizioso: “Stiamo cercando di sviluppare metodologie anche per far interagire i materiali protocelluari con le cellule e i tessuti viventi. Il mio sogno è riuscire a ingegnerizzare tessuti sintetici avanzati da innestare su tessuti o organi danneggiati. Se ci riusciremo – continua – vorrei usare questi materiali protocellulari per mettere a punto terapie per la cura del diabete. Immagino per esempio di integrarli al pancreas per produrre insulina on demand, quando il livello di glucosio nel sangue diventa troppo alto”. Medicina rigenerativa, ma non solo. Salute, energia, ambiente, lotta all’inquinamento: le cellule artificiali sono uno strumento versatile per progettare applicazioni in svariati settori. Al Dipartimento di Chimica della New York University, per esempio, il ricercatore italiano Stefano Sacanna sta lavorando a quelle che sono state battezzate “cellule Pac-Man” perché, come i minuscoli protagonisti del videogioco degli anni Ottanta, potrebbero aiutarci a pulire l’ambiente, a depurare acque e terreni ingurgitando sostanze nocive o a “pulire” il nostro organismo ingurgitando virus e batteri. Cellule artificiali che imitano il trasporto attivo, che è una delle loro principali funzioni: quel meccanismo con cui veicolano dall’esterno al loro interno molecole fondamentali e al contrario, dall’interno all’esterno, prodotti di scarto. E, a proposito di versatilità, oltre alla funzione di spazzine, queste cellule potrebbero anche agire come riders molecolari e provvedere alla consegna di farmaci direttamente nei tessuti e negli organi che ne hanno bisogno. Come si legge sulle pagine di Nature, i risultati finora raggiunti forniscono un modello per lo sviluppo di una nuova generazione di materiali intelligenti. C’è ancora tanto lavoro da fare e l’attività dei laboratori di ricerca dovrà essere scandita anche dal dibattito pubblico, perché la biologia sintetica porta con sé anche varie sfide inerenti questioni etiche e questioni normative di biosicurezza.