Speciale sanità: radiografia di un’ingiustizia

La crisi del nostro Servizio sanitario nazionale è nei numeri e in una politica che ignora fenomeni come l’invecchiamento della popolazione e favorisce la crescita del privato

La pandemia ci ha insegnato poco o nulla. Il Servizio sanitario nazionale (Ssn) ha 45 anni d’età sul groppone e purtroppo li dimostra tutti. È una delle più grandi conquiste dell’Italia repubblicana, per decenni autentico fiore all’occhiello del sistema Paese in tutte le classifiche internazionali. Oggi, però, quei primati stanno cadendo uno dopo l’altro sotto i colpi dei tagli alla spesa, dell’emorragia di personale e della pervasività della sanità privata.
Nessuno rimpiange la precedente era delle mutue e, se tutti a parole dicono di voler salvare il Ssn, nei fatti nessuno sembra in grado di voltare pagina in modo strutturale rispetto alla stagione dell’austerity inaugurata con la crisi dei debiti sovrani del 2010-2011.

RISORSE UMANE…

I mali del nostro comparto salute sono gli stessi di tutta la Pubblica amministrazione. In cima c’è appunto la carenza di risorse umane negli organici delle aziende sanitarie e un’età media dei lavoratori sempre più alta. Secondo l’annuario pubblicato dal ministero della Salute, il Ssn ha perso circa 4.500 unità tra il 2012 e il 2022 (da 629.713 a 625.282). Ma sarebbero state molte di più senza il piano straordinario di assunzioni – solo il 20% con prospettive stabili – occorso per far fronte all’emergenza Covid. Nel 2019 il personale era crollato a quota 603.856. L’emorragia è stata solo temporaneamente tamponata durante la pandemia.
Secondo il ministro della Salute Orazio Schillaci mancano 4.500 medici e 10.000 infermieri, ma differenti stime che tengono conto, ad esempio, del rapporto tra personale sanitario e numero dei pazienti o numero degli abitanti calcolano una carenza di almeno 20.000 medici (fonte Smi, Sindacato medici italiani). Peggiore la situazione sul versante degli infermieri: stando al 19esimo Rapporto Crea sanità, mancano almeno 60.000 professionisti, anche in ragione della perdita di oltre 100.000 unità nei prossimi 10 anni per i pensionamenti e le fughe all’estero. Altre valutazioni parlano di un buco di addirittura 165.000 unità.

…IN FUGA

L’ulteriore piaga, infatti, è quella degli abbandoni anzitempo da parte dei nostri sanitari verso mestieri diversi oppure in direzione della sanità privata. O, ancora, verso quei Paesi esteri che sono disposti a pagare molto meglio le nostre professionalità della salute. Un infermiere italiano, sempre secondo il Crea, in media guadagna a parità di potere d’acquisto il 56% in meno di un collega tedesco, il 46,2% in meno dello svizzero e il 20% in meno dell’infermiere britannico. Senza contare il boom degli esodi alla volta di Paesi di nuova ricchezza come quelli arabi del Golfo. Ecco che i giovani non si avvicinano più a un settore avaro di soddisfazioni economiche e di prospettive di carriera, che comporta di per sé un forte stress legato alla delicatezza delle mansioni ed è sempre più spesso caratterizzato da turni massacranti e fenomeni di burnout psicofisico. Senza dimenticare i crescenti casi di aggressioni da parte di malati e dei loro familiari, a loro volta esasperati dalle inefficienze organizzative delle strutture sanitarie.

Morale? L’età media dei nostri professionisti della salute è arrivata a 49,1 anni. Sono numeri che naturalmente si riverberano anche sul perno centrale del Ssn: l’ospedale. Negli ultimi dieci anni ne abbiamo persi 95, il 9%, passando dai 1.091 del 2012 ai 996 del 2022. In calo pure le strutture per l’assistenza specialistica ambulatoriale: da 9.268 nel 2012 a 9.085 due anni fa. Solo il privato avanza: i presidi di assistenza territoriale residenziale sono passati da 6.526 a 8.045 nell’ultimo decennio (il pubblico copre appena il 15%), mentre quelli semi-residenziali sono cresciuti da 2.787 nel 2012 a 3.126 nel 2022. Stesso trend per la riabilitazione, con 1.180 strutture contro le 1.027 di un decennio fa.

PNRR IN RITARDO

Eppure, in una società come la nostra che invecchia sempre più, la domanda di salute inevitabilmente aumenta. Per affrontare le cronicità servirebbe una robusta sanità territoriale, la cui funzione cruciale è emersa anche durante la pandemia. Il Pnrr (Missione 6) prevede una riforma strutturale basata sulle cure di prossimità e sulla telemedicina, il cui fulcro sono le nuove Case di comunità. Ma siamo in ritardo con i tempi e gli obiettivi sono stati ridimensionati nella revisione del piano voluta dal governo Meloni. Peraltro, le nascenti strutture dovrebbero avere a regime dotazioni di personale, ad esempio 20.000 infermieri di famiglia e comunità (Ifec), che nessuno sa come saranno mantenuti nell’ambito del Fondo sanitario nazionale (il Pnrr non può foraggiare la spesa corrente). Così, rimaniamo con un Ssn ospedale-centrico, in cui i Pronto soccorso, sempre più sguarniti, sono congestionati e sovraccaricati di accessi (codici verdi e bianchi) che andrebbero gestiti in altro modo. Tutto ciò mentre nemmeno i medici di famiglia riescono a fare da argine: oggi ne mancano oltre 3.100, entro il 2026 ci saranno 11.400 pensionamenti e al Sud i nuovi arrivati non basteranno a rimpiazzarli. Grazie ad alcune deroghe regionali, circa il 48% dei camici bianchi supera il limite di 1.500 assistiti e arriva a 1.800 o anche più.
Ma la toppa non risolve il problema, mentre l’accessibilità e la qualità dell’assistenza inevitabilmente peggiorano. Il risultato è che il diritto costituzionale alla salute rimane sempre più spesso garantito solo sulla carta.

AVANZA IL PRIVATO

Le eterne liste d’attesa nel pubblico, appesantite dopo l’emergenza pandemica, sono una delle piaghe che più preoccupano oggi i cittadini. Tempi d’attesa di mesi o in alcuni casi addirittura di anni, a fronte di visite ed esami diagnostici prescritti con il crisma dell’urgenza. Eppure non tutti possono permettersi di sborsare le cifre che il privato non convenzionato chiede. Secondo un’indagine di Altroconsumo, il 5% degli italiani rinuncia del tutto a curarsi.
Intanto, la spesa sanitaria cosiddetta out of pocket, ossia di tasca propria a beneficio del settore privato tout court, ha sfondato quota 40 miliardi di euro, un ammontare che le scelte politiche sembrano sempre più voler indirizzare verso il sistema delle assicurazioni (all’americana). E le strutture convenzionate protestano per un tariffario della specialistica ambulatoriale a loro dire insostenibile rispetto ai costi.
Ma gli esborsi per una prestazione in regime privato puro continuano a salire e oscillano naturalmente in ragione della tipologia di erogazione. Una Eco color doppler cardiaca può arrivare a 200 euro, una visita oncologica costa mediamente tra 150 e 350 euro, una visita urologica tra 100 e 200 euro, un Eco addome completo arriva anche a
250 euro, una visita ortopedica supera facilmente i 200 euro, quella oculistica costa in media 150 euro e quella endocrinologica fino a 200 euro. Si tratta grosso modo delle stesse tariffe che i medici ospedalieri propongono in regime di libera professione intramuraria (intramoenia), svolta cioè nelle stesse strutture del Ssn ma al di fuori del normale orario di lavoro. Una pratica che consente, è vero, al paziente di scegliersi lo specialista ma che sta dilagando a scapito delle prestazioni rese in regime pubblico.

AUMENTO DEL TICKET

Dall’altra parte, anche i ticket del Servizio sanitario nazionale, legati ai Lea (Livelli essenziali dell’assistenza), stanno lievitando nelle diverse regioni anche se, comunque, restiamo intorno ai 21,50 euro di media per una prima visita specialistica, 14 euro per una visita di controllo, 12 euro per un elettrocardiogramma, 17,50 euro per una radiografia al torace, 35,60 euro per un’ecografia all’addome inferiore. E normalmente ci sono esenzioni per determinate fasce demografiche (anziani, redditi bassi).
In questo scenario disastrato, molti temono l’impatto che potrebbe derivare dal progetto di riforma sull’autonomia differenziata voluto soprattutto dalla Lega. La Fondazione Gimbe ha parlato del rischio di una “frattura strutturale” tra Nord e Sud, che “comprometterà l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute”. Ma in tanti paventano un’accentuazione dei gap già esistenti connessi al regionalismo sanitario e un peggioramento delle prestazioni in molte aree del Paese.
Frantumare il Ssn in 21 pezzi per salvarlo? Pochi scommettono sia questa la soluzione giusta.

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