L’operazione che salvò l’arte italiana

Negli anni Trenta si capisce che, in caso di conflitto, i bombardamenti aerei avrebbero potuto raggiungere il cuore delle nazioni nemiche. Bisognava quindi proteggere le città e preservarne il patrimonio artistico. Durante la guerra civile spagnola, le opere conservate al Prado di Madrid vengono inizialmente difese con sacchi di sabbia ma alla fine il direttore del museo opta per il trasferimento in Svizzera di intere collezioni. Allo stesso modo, quando alla fine degli anni ‘30 la prospettiva di una guerra contro Hitler diventa sempre più realistica, il responsabile dei musei nazionali francesi comincia a pianificare l’evacuazione del Louvre. In Italia, la situazione si presenta molto più critica perché da tutelare è un patrimonio artistico diffuso su tutto il territorio nazionale. A dirigere le operazioni della sua tutela e messa in sicurezza, quando inizia la seconda guerra mondiale e si è ragionevolmente certi che prima o poi coinvolgerà anche l’Italia, è il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, discussa figura di fascista, colto frequentatore di circoli intellettuali, critico nei confronti di alcuni aspetti del regime ma anche tra i più intransigenti e zelanti sostenitori delle leggi razziali. Bottai ordina il trasferimento in sedi ritenute sicure del “patrimonio artistico mobile” e la copertura delle opere d’arte che per la loro dimensione non potevano essere trasportate, con artefatti e contrafforti in mattoni che le rendessero meno fragili e visibili. Tra i funzionari del ministero coinvolti nell’operazione c’è il giovane Pasquale Rotondi, nato nel 1909 e laureatosi in Lettere a Roma. Nel settembre del 1939 Rotondi viene nominato sovrintendente artistico nelle Marche con il preciso compito di radunare a Urbino e di mettere in sicurezza a Palazzo Ducale le opere conservate in vari siti della regione. Urbino era considerata dal ministro città sufficientemente sicura, lontana dalle frontiere alpine e dalle coste nord-africane, lontana anche dai porti più rilevanti dal punto di vista militare e commerciale. Si può immaginare la sorpresa e lo sconcerto di Rotondi quando si accorge che la situazione non era proprio quella immaginata da Bottai. Scrive nel suo diario, in data 1 ottobre 1939: “Sono arrivato questa mattina in Urbino, dopo aver passato la notte in treno. Nella piccola stazione ferroviaria vedo un folto gruppo di soldati dell’Aeronautica che danno l’assalto all’autocorriera in partenza per la città. A metà strada l’automezzo si ferma e i soldati scendono. Chiedo al fattorino come mai in Urbino si trovino dei militari. La risposta è sconcertante per me che sapevo Urbino lontana da ogni obiettivo di guerra: un grande deposito di munizioni dell’Aeronautica è in via di allestimento nella lunga galleria ferroviaria che si sviluppa nelle viscere del colle su cui sorge la città”. Risultato della denuncia di Rotondi: “Mi viene dato l’incarico di trovare in un’altra località delle Marche un edificio sicuro, dove si possa installare il progettato ricovero”. Quello che lo attende non è un compito facile perché la nuova sede, oltre alla lontananza da ogni obiettivo militare e alla solidità delle strutture, avrebbe dovuto garantire l’assenza di umidità, in modo che le opere d’arte non avessero a subire il benché minimo danno durante la loro permanenza, e una buona disponibilità d’acqua anche nei mesi estivi per il funzionamento degli impianti antincendio. È in base a questi criteri che alla fine la scelta di Rotondi cade sulla Rocca di Sassocorvaro (a una trentina di chilometri da Urbino), una delle più belle creazioni artistiche della seconda metà del Quattrocento di Francesco di Giorgio Martini, il grande architetto militare di Federico da Montefeltro, nella quale le imponenti e gigantesche opere in muratura accrescono l’idea dell’inespugnabilità del luogo. A Sassocorvaro si cominciano a portare opere d’arte provenienti da vari centri delle Marche ma si comincia anche a parlare del trasferimento nella Rocca di alcuni capolavori appartenenti a musei e chiese di altre regioni, in particolare di Venezia. Nel giugno del 1940, dopo aver catalogato tutto il materiale artistico sotto il suo controllo, Rotondi può ritenersi soddisfatto. Ha completato il trasferimento di più di 30 rulli con arazzi, le ceramiche di Pesaro, gli scritti di Rossini, e più di 7.000 opere provenienti dalle Marche e da Venezia. A Sassocorvaro nei mesi della guerra trovano rifugio opere di Piero della Francesca (tra cui la Madonna di Senigallia e la tavola con la Flagellazione di Cristo), Tiziano (con la Danae, la tela con L’Ultima Cena e quella con la Crocifissione), Giovanni Bellini, Canaletto, Giorgione (la Tempesta), Luciano Laurana (la Città ideale), Lippi, Lotto, Mantegna, Caravaggio (con la Cena in Emmaus), Paolo Uccello, Raffaello, Rubens, Signorelli, Tiepolo, Tintoretto, Guercino. Una foto d’epoca mostra Pasquale Rotondi con l’autista e la sua Balilla. Costituiscono magna pars degli aiuti e delle attrezzature di cui il sovrintendente dispone per il suo lavoro. Si può immaginare l’epopea dei trasferimenti con mezzi di fortuna e tecniche di imballaggio improvvisati, mentre il Paese è in guerra e i viaggi si svolgono sotto la continua minaccia dei bombardamenti degli Alleati. Ma il peggio per Pasquale Rotondi (e per l’Italia) deve ancora arrivare. Il 20 gennaio 1943 annota nel suo diario: “Sono stato a Roma e abbiamo parlato della possibilità di creare nelle Marche un secondo ricovero di opere d’arte (…). Siamo d’accordo nel ritenere inopportuna una condensazione di materiale artistico a Sassocorvaro. Meglio diradare le opere istituendo in un’altra località sicura del Montefeltro un altro ricovero. (…) Oggi ho visitato a Carpegna il palazzo dei Principi che ha locali asciuttissimi e perfettamente rispondenti allo scopo”. Il 19 aprile aggiunge: “Il ricovero di Carpegna è pronto per ricevere le opere”. Il 21 aprile annota l’arrivo a Carpegna (circa 20 km da Sassocorvaro) da Milano della sovrintendente Fernanda Wittgens. L’incontrò porta a Carpegna “un considerevole numero di capolavori della galleria di Brera, del museo Poldi Pezzoli, del museo del Castello Sforzesco, dell’Accademia Carrara di Bergamo e del Duomo di Treviglio. Ci sono, tra queste opere, la Pala di San Bernardino di Piero della Francesca, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo alla colonna di Bramante. Dopo l’8 settembre e la firma dell’armistizio con le forze anglo-americane comincia la guerra contro gli ex-alleati tedeschi che decidono subito l’occupazione militare di tutta la penisola italiana. Adesso l’integrità del nostro patrimonio artistico non va più difesa dai bombardamenti degli Alleati ma da quelli dei tedeschi e dalle distruzioni e razzie del loro esercito di occupazione. A dire il vero, l’interessata attenzione della Germania verso le opere d’arte italiane risaliva agli anni ancora precedenti lo scoppio del conflitto. Dopo la sua visita in Italia del ‘38, il Fuhrer aveva sviluppato ulteriormente il progetto di un museo destinato a diventare, nella sua folle ambizione, il più grande del mondo e che non poteva non ospitare le opere della classicità e del Rinascimento italiano pagate a prezzi irrisori, esportate illegalmente o prelevate a qualsiasi titolo. Per molti mesi le Marche si troveranno nella parte d’Italia non ancora liberata dall’esercito anglo-americano e quindi controllata dagli irriducibili fascisti della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) e dai tedeschi. Rotondi se li trova in casa, e non solo metaforicamente, in cerca di armi ma non si sa mai: per prudenza e per prevenire eventuali tentazioni accaparratrici, sua moglie nasconde sotto il letto la Tempesta di Giorgione e si dichiara malata, chiudendosi appunto nella sua camera. Roma sarà liberata all’inizio del giugno successivo (1944) e la provincia di Pesaro e Urbino verrà a trovarsi proprio sulla linea gotica. Anche se il comandante tedesco assicura che sotto la sua custodia le opere d’arte non hanno niente da temere, Sassocorvaro e Carpegna non sono più siti sicuri. Rotondi comincia a organizzare il loro smantellamento riportando alcune opere nei sotterranei del Palazzo Ducale a Urbino e pensa ad altre destinazioni. Nel diario annota, il 24 novembre: “Si discute tra noi sull’opportunità di trasferire ogni cosa in Vaticano o in Svizzera“. E poi, l’11 dicembre: “È in fase di avanzata preparazione il progetto di trasportare in Vaticano tutti i maggiori capolavori dei nostri musei e delle nostre chiese“. Non tutti però sono d’accordo. Non lo è in particolare Carlo Alberto Biggini, il ministro dell’Educazione nazionale della Rsi che aveva preso il posto di Bottai dopo che questi si era schierato contro Mussolini il 25 luglio: per il momento Roma è ancora controllata dagli alleati tedeschi ma è pur sempre un altro Stato e lui le opere d’arte italiane le vuole tenere sotto il controllo della Rsi. Il progetto del trasferimento in Vaticano va ugualmente avanti anche perché ha ricevuto, con l’intermediazione del cardinale Montini, futuro papa Paolo VI, il consenso di Pio XII. Chi se ne occupa materialmente è Emilio Lavagnino, un altro funzionario del Ministero dell’Istruzione, più anziano di una decina d’anni rispetto a Pasquale Rotondi, caduto in disgrazia per il suo antifascismo e declassato in ruoli inferiori, sostanzialmente pre-pensionato. Il senso del dovere lo accomuna a Rotondi e lo porterà con la sua Topolino, l’utilitaria dell’Italia di quegli anni, in giro anche per tutto il Lazio per metterne in sicurezza il patrimonio artistico. È Lavagnino che il 20 dicembre ‘43 si presenta con tre autotreni a Urbino per un primo carico. Il viaggio era stato e sarà, al ritorno, rocambolesco ma anche la sua preparazione non era stata da meno: si era trattato di trovare i mezzi di trasporto – quasi tutti erano stati requisiti dai tedeschi – e la benzina al mercato nero, fornendo alla ditta che eventualmente si sarebbe resa disponibile tutte le garanzie richieste in termini di non requisizione delle autovetture e di scorta armata. Il 22 dicembre Rotondi annota nel suo diario: “Oggi buona parte dei capolavori di Venezia, di Roma e di Milano, che fino a questa notte si trovavano in mia consegna, sono in viaggio verso la Città del Vaticano (…). L’incontro con Lavagnino è stato commovente. Egli mi ha spiegato che, per attuare il programma di affidare i nostri capolavori al Vaticano, è stato giocoforza ricorrere alla collaborazione dei tedeschi, senza dei quali sarebbe stato impossibile disporre di camion ed effettuare viaggi. (…) il viaggio sarà rischiosissimo; ma non c’è dubbio che, una volta giunte le opere in Vaticano, esse saranno molto più sicure che altrove”. Biggini viene a sapere del trasferimento e convoca per l’inizio del nuovo anno una riunione a Padova a cui tutti i sovrintendenti devono con ordine irrevocabile partecipare per sottoscrivere un documento perentorio sulla sicurezza delle opere d’arte che non devono più essere spostate. È il momento delle scelte e Rotondi sceglie. Il senso dello Stato e del dovere e l’amore per l’arte gli suggeriscono la scelta di un antifascismo meno politico di quello di Lavagnino ma che con questo ugualmente si incontra e si intende. Approfitta di un errore materiale della sua convocazione – nel telegramma che gli era pervenuto era indicata la data dell’8 febbraio, anziché dell’8 gennaio – per non andare a Padova e, quando Biggini gli ricorderà che i convenuti a quella riunione si erano impegnati a non spostare le opere d’arte in loro consegna, osserverà pacatamente che lui non era un “convenuto”. Così anche un secondo e ultimo carico parte da Urbino il 13 gennaio del ‘44. Pasquale Rotondi può tirare un sospiro di sollievo: le opere d’arte a lui affidate, una parte consistente del patrimonio artistico italiano, sono al sicuro Oltretevere e lì rimarranno, nei palazzi vaticani, fino al termine del conflitto quando lo Stato pontificio le riconsegnerà all’Italia. L’”Operazione Salvataggio” poteva considerarsi conclusa. Dall’ultima pagina del suo diario, in data 21 settembre 1946, leggiamo: “Le opere d’arte, liberate dagli imballaggi, sono state trovate tutte in perfette condizioni di conservazione. In questo modo si è chiusa oggi questa lunga pagina della mia vita di funzionario delle Belle Arti!”. Nel dopoguerra, l’anti-eroe Pasquale Rotondi continuerà a essere tale e a comportarsi di conseguenza. Non “scenderà” in politica, non accetterà particolari incarichi professionali continuando a fare il sovrintendente, ora a Genova, e diventando poi, all’inizio degli anni Sessanta, direttore dell’Istituto Centrale del Restauro. Il suo contributo all’“Operazione Salvataggio” rimarrà a lungo sotto traccia nello stesso territorio marchigiano. Lo ritroviamo però a Firenze nel 1966 alle prese con la tragedia dell’alluvione. È a lui che lo Stato ricorre per coordinare le operazioni di salvataggio di opere sublimi quali la Porta del Paradiso del Battistero di Lorenzo Ghiberti, il Crocefisso di Cimabue e centinaia di volumi preziosi conservati presso la Biblioteca nazionale.

GLI UOMINI CHE FECERO L’IMPRESA

Le Scuderie del Quirinale, fino al 10 aprile 2023, dedicano un’importante mostra alle storie del salvataggio del nostro patrimonio artistico minacciato dalla guerra e dall’occupazione tedesca. I protagonisti di queste storie, nel contesto drammatico della seconda guerra mondiale, ebbero la lungimiranza di comprendere la gravità della minaccia che incombeva sull’intero patrimonio artistico e culturale e, quindi, sul cuore e la memoria del nostro Paese. Molte di queste persone erano soprintendenti e funzionari dell’amministrazione delle Belle arti che, con l’aiuto di rappresentanti del Vaticano, studiosi e semplici cittadini, si resero protagonisti di una grande impresa. Fra loro si annoverano Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino, Giulio Carlo Argan, Giulio Battelli, Jole Bovio Marconi, Cesare Brandi, Palma Bucarelli, Vincenzo Moschini, Giuseppe Poggi, Fernanda Wittgens e molti altri ancora. La mostra ricompone la trama di un intreccio intessuto con molti fili: alcuni sono stati già raccontati, altri sono stati dimenticati e vengono riportati alla luce proprio in occasione di questa esposizione; tutti costituiscono tasselli fondamentali per raccontare una storia eroica e, nella sua complessità, poco nota. A partire dalla seconda metà degli anni Trenta, per assecondare le brame collezionistiche di Hitler e Göring, i gerarchi fascisti favorirono la cessione di importanti opere d’arte italiane, anche sotto vincolo. A partire dal 1943, questi acquisti forzati si tramutarono spesso in una vera e propria aggressione al patrimonio nazionale, come bottino di guerra. Già dal 1939, con l’invasione della Polonia, il ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai aveva intuito che i monumenti e le opere d’arte italiane avrebbero potuto essere a rischio e aveva dato avvio all’elaborazione del piano per il loro spostamento. Da qui, hanno inizio le molte storie raccontate in mostra. Un ampio panorama documentario, fotografico e sonoro per un racconto avvincente e immersivo di uno dei periodi più drammatici per il nostro Paese. (Gib)

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