Stile libero – La sintonia del fare

A partire dagli anni Ottanta, con la mia famiglia passavamo lunghi periodi in California. Le uscite domenicali puntavano al Pier 15 di San Francisco dove in una specie di capannone abbastanza dimesso c’era l’Exploratorium,
uno strano museo in cui non solo toccare non era proibito ma altamente consigliato. The art of tinkering era il manuale che uno si portava a casa e che spiegava con tante foto e schemi come scattare fotografie aeree con un palloncino, come fare circuiti attraverso le tartine in pasta di sale colorata, come cucire vestiti che si illuminavano, come infeltrire la lana e farne gioielli e come costruire, con un cestino di plastica rovesciato, un robot che colorava.
I circuiti di biglie che scivolavano su piani inclinati, da comporre in ardite costruzioni, potevano estendersi in architetture complesse e meravigliose, vere opere d’arte, antenati dei fantastici Gravitrax o del computer a biglie Turing Tumble. Colla, legno, stoffa, aria, plastica, cartone coniugati a circuiti, molle, lampadine, pile, filo di ferro erano le componenti di lavori all’intersezione fra arte e scienza, costruiti con l’immaginazione e le mani.
Vico affermava: “Verum et factum convertuntur”: conosciamo davvero le cose che siamo noi a produrre. La grande pedagogia fra i due secoli scorsi, fino a John Dewey, ha enfatizzato l’importanza dell’attivazione del bambino nell’apprendimento, nell’operatività, nell’esperienza sollecitata dalla curiosità e dall’interesse.
Adesso a che punto siamo? Dopo qualche decennio, il tinkering ha fatto il suo ingresso nei repertori ministeriali delle innovazioni assieme a molti altri termini, tutti pomposamente in inglese (anche quelli che si riferiscono a metodi da sempre presenti nelle prassi degli insegnanti di buon senso, umilmente denominati in italiano).
Quindi in alcune scuole si svolgono laboratori con arduino, led, circuiti, materiali poveri, ma il rischio è che siano parentesi di manualità fra presentazioni di contenuti disciplinari che si svolgono a partire dalla formula scritta sulla lavagna o sui libri o sul tablet, in modalità puramente trasmissive. Va di moda utilizzare l’acronimo Stem. Però spesso, invece che indicare l’insieme delle discipline tecnico-scientifiche, la sigla si riferisce a queste pillole laboratoriali che addensano un po’ di attività pratiche a volte solo vagamente alimentate da riflessioni di didattiche disciplinari. Quando si torna ai “programmi”, fatica a imporsi un approccio concreto e operativo ai saperi; la testa riceve poche informazioni dall’esperienza e ancora molte classificazioni e nozioni dai testi. Il tinkering resta una nicchia a parte, non un approccio trasversale. Basterebbe abituarsi a piegare un po’ di carta, tirare qualche elastico su un geopiano, tagliare qualche figura nel legno, manipolare qualche esperimento per mettere in sintonia il fare con il capire. Ma ci vorrebbe quella formazione didattica dei docenti che pochi ricevono.
Siamo davvero cresciuti in questi decenni nell’idea che l’apprendimento abbia bisogno del fare? Dovremmo farci questa domanda, pensando che nella conoscenza quello che forma, quello che resta, è ciò che è stato conquistato.

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