L’orologio di Enrico Mattei, rimasto intatto, ha fermato l’attimo in cui il 27 ottobre del 1962 la sua storia si è interrotta come un lampo nel cielo sopra la campagna pavese: le 18.50. Il fondatore e presidente dell’Eni era in volo verso Milano dalla Sicilia, dove era stato spinto ad andare, e dov’è scattata la trappola che ha portato alla sua eliminazione. “Venga, la situazione a Gagliano Castelferrato è esplosiva”: così Giuseppe D’Angelo, allora presidente della Regione Sicilia, convince Mattei a fare quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Il paese nella provincia di Enna era in rivolta, le donne avevano occupato i pozzi per impedire la produzione e volevano che l’Eni si impegnasse a costruire uno stabilimento creando occupazione. Alle 9.15 del 26 ottobre del 1962 Enrico Mattei decolla dall’aeroporto di Ciampino per andare in Sicilia con il bireattore Morane Saulnier 760 Paris II (I-Snap), pilotato da Irnerio Bertuzzi. A bordo ci sono anche il giornalista del Time Magazine William McHale, che lo sta seguendo per realizzare il servizio di copertina, e l’ingegner Angelo Fornara, amministratore delegato del petrolchimico Anic (Azienda nazionale idrogenazione combustibili), del gruppo Eni. Erano da poco passate le 10 quando l’aereo atterra sulla pista dell’aeroporto di Gela. Mattei visita lo stabilimento petrolchimico dell’Anic e partecipa all’assemblea degli azionisti. La sera scende per lui sul villaggio residenziale, costruito per gli operai. Il giorno dopo, alle 7.40, il fondatore dell’Eni, il giornalista McHale, il presidente della Regione Sicilia Giuseppe D’Angelo e l’ingegner Rino Bignami, capo settore Agip Mineraria a Gela, partono per Gagliano con un elicottero dell’Agip Mineraria. Qui una folla acclama Mattei che pronuncia le sue ultime parole in pubblico, annunciando l’inizio delle attività di estrazione del gas nella zona. “Noi non portiamo via il metano, il metano rimane in Sicilia, rimane per le industrie, per tutte le iniziative, per tutto quello che la Sicilia dovrà esprimere. Anche io ero povero come voi e sono dovuto emigrare, non dovrà succedere più. Lavoreremo duro per lo sviluppo dell’isola”, promette Enrico Mattei che, nato in una modesta famiglia, si era battuto per non liquidare o privatizzare l’industria petrolifera dello Stato. Con la creazione dell’Eni aveva voluto creare un’industria pubblica “nell’interesse non di singoli gruppi ma di tutti gli italiani”. Mattei aveva difeso, facendosi molti nemici potenti, il diritto dell’Italia a sfruttare le proprie fonti energetiche, non sottomettendosi alle cosiddette “Sette Sorelle”, le più grandi compagnie petrolifere mondiali, e rompendo le regole di mercato che queste avevano imposto: rispetto alla regola del fifty-fifty, Mattei corrisponde un utile del 75% ai Paesi in cui si trovano i pozzi di petrolio. Dopo il discorso di Gagliano, Mattei sale sull’elicottero che lo porta all’aeroporto Fontanarossa di Catania dove, la notte precedente, il comandante Irnerio Bertuzzi aveva parcheggiato il bimotore Morane Saulnier 760 Paris II che, mentre è parcheggiato, viene sabotato con una carica di esplosivo. Quella sera l’aereo, pilotato da Bertuzzi e in cui viaggiano Mattei e McHale, esplode in volo e precipita nella campagna di Bascapé, a una trentina di chilometri dall’aeroporto di Milano Linate, dove avrebbe dovuto atterrare. Tra il fango finisce il sogno di Mattei: quello di un’Italia libera e protagonista nel mondo, indipendente dal punto di vista energetico e, quindi, politico. Di quel disegno, grande e ambizioso, restano i rottami, come quelli dell’aereo dispersi nella campagna pavese insieme a frammenti dei tre corpi finiti sui rami degli alberi. “Sembrava che fossero piovuti dal cielo perché erano appesi ai rami dai quali penzolavano. Era opinione diffusa tra le persone presenti al momento che l’aereo fosse esploso in aria”, dichiara Ennio Carrega, che nel 1962 era vicedirettore della filiale Agip di Milano, accorso subito a Bascapé. “Era tutto chiaro fin dal primo momento, ma è stato tutto coperto, inconfessato, depistato per i decenni a venire”, per usare le parole di Giorgio Bocca. A fare luce sui fatti, oltre trent’anni dopo, è stato il magistrato di Pavia Vincenzo Calia, titolare dell’inchiesta avviata nel 1994 e conclusa nel 2003. Un’indagine monumentale composta da 5.000 pagine, 614 testimoni, 12 consulenze tecniche e riaperta dopo che il pentito di mafia Gaetano Iannì dichiarò di aver saputo che Mattei era stato ucciso con una bomba piazzata sul suo aereo. Calia è riuscito a trovare le prove dell’omicidio di Mattei. La sua conclusione smentisce quanto stabilito dalle due inchieste del 1962, quella ministeriale ordinata dall’allora ministro della difesa Giulio Andreotti e quella della Procura di Pavia, che avevano concluso all’unanimità, senza in realtà fare gli accertamenti necessari e omettendo prove e testimoni, che si era trattato di un incidente provocato da una concomitanza di più fattori ovvero “condizioni metereologiche avverse” e “condizioni psicofisiche del pilota al momento dell’incidente”. Le fotografie, gli accertamenti tecnici e le numerose testimonianze raccolte da Calia hanno dimostrato che “l’aereo fu dolosamente abbattuto”. I consulenti nominati dal magistrato, l’ingegnere Donato Firrao e il professor Giovanni Brandimarte, dopo aver svolto le perizie hanno accertato la presenza a bordo di una carica esplodente, equivalente a circa cento grammi di Compound B, innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei suoi alloggiamenti. L’ordigno era posizionato a circa quindici centimetri dalla mano sinistra di Enrico Mattei, quella in cui portava l’anello. Anche sul quadrante, sulle lancette, sui segni delle ore dell’orologio del presidente dell’Eni sono stati ritrovati segni che si possono far risalire a un’esposizione a un’onda esplosiva. Secondo il pm Calia, la programmazione e l’attuazione dell’attentato furono complesse e comportarono, almeno a livello di collaborazione e di copertura, il coinvolgimento di uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato, con responsabilità non di secondo piano. Che Mattei sia stato vittima di un attentato, oltre all’indagine del pm Calia, lo ha stabilito in seguito la Corte d’assise di Palermo nel procedimento sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, sequestrato il 16 settembre 1970 e mai ritrovato. Processo riaperto nel 2003 quando il pm Vincenzo Calia ha trasmesso copia degli atti dell’inchiesta su Mattei alla procura di Palermo intravedendo un legame tra l’uccisione del presidente dell’Eni e la scomparsa del giornalista che stava lavorando alla sceneggiatura del film di Francesco Rosi, Il caso Mattei, e stava indagando sulle ultime ore trascorse in Sicilia dal manager di Stato. Con la sentenza del 10 giugno 2011, con cui Totò Riina veniva assolto, la procura giudicò “acclarata la natura dolosa delle cause che determinarono la caduta dell’aereo di Mattei”. I mandanti e gli esecutori non sono stati individuati. Scomparso Mattei, fu Eugenio Cefis ad assumere tutti i poteri, ancor prima di diventare presidente dell’Eni nel giugno del 1967. L’Eni tornò ad avere una politica sottomessa agli Stati Uniti e ai grandi gruppi petroliferi internazionali. Mattei voleva modernizzare l’Italia, come in parte è riuscito a fare, rendendola indipendente dal punto di vista energetico, consapevole che l’autonomia politica passa per quella economica. “Mattei – scrisse il Guardian – aveva un grande orgoglio di essere italiano. Con la sua morte, l’Italia – e forse l’Europa – hanno perso una delle personalità più importanti degli anni del dopoguerra”.