L’oceano è il polmone blu del pianeta: il primo produttore di ossigeno sulla Terra. Ed è il più importante regolatore del clima, un ecosistema preziosissimo anche per la capacità di assorbire l’anidride carbonica rilasciata in atmosfera bruciando combustibili fossili. Copre oltre il 70% della superficie terrestre, tanto che lo scrittore Arthur C. Clarke sosteneva fosse inappropriato chiamare questo pianeta Terra quando è chiaramente Oceano. Eppure, il mondo sommerso è ancora in gran parte sconosciuto. “Viviamo su una manciata di terre emerse circondate da un vasto mondo liquido di cui sappiamo pochissimo. Ma stiamo riuscendo a distruggerlo ancora prima di scoprire che cosa contiene”. La denuncia arriva dall’oceanografa statunitense Edith Widder. Nel libro Sotto la soglia delle tenebre (Bollati Boringhieri) l’oceanografa accompagna il lettore nelle profondità oceaniche condividendo le emozioni delle spedizioni di ricerca in mare aperto e delle immersioni pionieristiche. Con il suo lavoro, la scienziata ribadisce l’importanza di capire come funzionano l’oceano e la vita che ospita e di monitorarne lo stato di salute perché è “un ingranaggio fondamentale di quella macchina straordinaria che è la vita sul pianeta”. Un concetto che comincia a imporsi tra i ricercatori, tanto che negli ultimi anni sono numerose le ricerche che hanno preso il via. Massimo Caccia, dell’Istituto di Ingegneria del mare del Cnr di Genova, progetta robot marini per monitorare luoghi remoti che si stanno rapidamente modificando a causa dei cambiamenti climatici. “Il collega Gabriele Bruzzone ne ha guidato la sperimentazione tra i ghiacci delle acque polari, nelle Isole Svalbard”, un arcipelago nel mar Glaciale Artico, a metà strada tra Norvegia e Polo Nord: “A Ny Ålesund – racconta Caccia – il Cnr gestisce la stazione di ricerca “Dirigibile Italia”. Qui, in una regione del pianeta in cui i cambiamenti ambientali si stanno manifestando più rapidamente che altrove, durante tre campagne (nel 2015, 2017 e 2018) abbiamo messo in mare i prototipi dei nostri droni marini per studiare le dinamiche di scambio tra atmosfera, mare, terra e ghiaccio”. Si tratta di veicoli portatili che, una volta messi in mare, possono muoversi in maniera autonoma o telecomandati da remoto e possono raccogliere campioni dalla superficie dell’acqua e dati sui parametri chimici e fisici di acqua e atmosfera che “verranno usati per realizzare previsioni meteo-climatiche sempre più affidabili e capire e predire i cambiamenti climatici”. Le prossime missioni vedranno in azione un altro robottino, un veicolo modulare autonomo di superficie dalla forma di catamarano, che monitorerà i parametri ambientali del porto industriale di Danzica e poi di un fiume e di un fiordo norvegese. L’obiettivo? “Rilevare la presenza di metalli pesanti in quelle acque che poi arrivano nel Mar Glaciale Artico, per misurare l’impatto delle aree antropizzate sull’ambiente polare”. Il piccolo catamarano si chiama Swamp ed è stato sviluppato dal Cnr nell’ambito del progetto europeo di cooperazione Interreg Italia-Croazia “InnovaMare” che, con soluzioni robotiche e sensori innovativi, si prefigge di studiare le acque interne e le zone umide di porti e lagune e di monitorare e limitare l’inquinamento marino del Mare Adriatico. Anche l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs) di Trieste può contare su una flotta di sistemi remoti mobili per monitorare le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del nostro mare e comprenderne lo stato di salute. “I float – spiega la ricercatrice Elena Mauri – sono sonde autonome che si muovono con la corrente: sono cilindri alti circa due metri che scendono lungo la colonna d’acqua e raccolgono i dati che vengono trasmessi alla stazione a terra per essere poi implementati nei modelli meteo-climatici”. Sono invece degli alianti sottomarini i cosiddetti glider che planano in mare variando il loro volume, gonfiando e sgonfiando una vescica e muovendo avanti e indietro il baricentro. “A differenza dei float, sono pilota- bili: quando salgono in superficie può essere infatti programmata la loro direzione. Una loro missione può durare anche 3-4 mesi”. Con questi strumenti, dall’Ogs riescono a profilare i primi mille metri della colonna d’acqua e contribuiscono al monitoraggio continuo e capillare dei mari di tutto il mondo. “I nostri glider e i nostri float fanno parte dei programmi internazionali “Ocean Gliders e Argo-International”. Quest’ultimo è nato 20 anni fa e può contare su 4mila float sempre attivi a tutte le latitudini: rappresentano una fonte unica di informazioni per studiare il ruolo degli oceani sul sistema climatico”. Grazie ai sensori montati a bordo, possono monitorare temperatura, salinità, ciclo del carbonio, Ph, clorofilla, ossigeno, calore: “Quest’ultimo è un parametro importante perché condiziona la densità delle masse d’acqua e quindi il movimento delle correnti”, spiega la ricercatrice dell’Ogs. Anche Nicola Nurra, docente di biologia marina all’università di Torino, nel libro Plasticene (Il Saggiatore) scrive che gli oceani sono indispensabili per l’equilibrio termico del globo e la regolazione del sistema climatico. Assorbono oltre il 90% del calore che si accumula sulla Terra e bilanciano le temperature nell’atmosfera stabilizzando il clima. Oggi sappiamo che questo grande deposito di calore viene trasferito attraverso i nastri trasportatori oceanici, le correnti, che influenzano significativamente i processi climatici nei continenti. Oltre a immagazzinare calore, le acque dei nostri mari catturano anche CO2 che, attraverso lo sprofondamento delle acque superficiali, viene veicolata in profondità. “Il mare è il più grande deposito di CO2 del pianeta”, scrive Nurra. Il punto è che l’imponente quantitativo di anidride carbonica assorbita nel tempo dalle acque oceaniche ha prodotto la riduzione del Ph facendo aumentare l’acidità. “L’acidificazione degli oceani crea forti squilibri negli ecosistemi marini: si pensi alla vulnerabilità degli organismi che hanno scheletri o gusci calcarei”, puntualizza Mauri che aggiunge: “Per ampliare il nostro monitoraggio stiamo iniziando a usare float e glider che possono spingersi fino a 4 mila metri, che per il Mediterraneo significa raggiungere quasi la massima profondità: questo significa adattare la sensoristica a resistere a pressioni maggiori». All’aumentare della profondità, le acque diventano via via più buie e fredde e la pressione si fa enorme. “I dati che raccogliamo – conclude Mauri – dicono chiaramente che il mare sta cambiando. Diventa sempre più caldo e più acido, aumenta la salinità e l’innalzamento del suo livello mette a rischio le popolazioni costiere”. Le sfide scientifiche, dunque, vanno a braccetto con quelle tecnologiche perché in fondo, che siano filo-guidati o autonomi, i droni marini sono un concentrato di scienza e tecnica per poter studiare il mare e contribuire alla sua salvaguardia.