C’è poco da fare: se andate a Padova e visitate la Cappella degli Scrovegni, non riuscirete a evitare di essere catturati dal blu con cui Giotto l’ha dipinta, tra il 1303 e il 1305. Tutto merito del grande artista di Colle di Vespignano, certo. Ma anche di un costoso silicato di sodio e alluminio contenente solfuri e solfati e più noto al grande pubblico come “blu oltremare” e ancor di più come lapislazzulo, una pietra considerata preziosa all’inizio del XIV secolo. Il “blu oltremare” è un pigmento naturale, conosciuto fin dall’antichità.
Ma Giotto l’ha potuto utilizzare, in maniera divina, solo perché il suo facoltoso committente gli ha consentito di averla facendola venire da lontano. Per quanto grande fosse l’arte del pittore discepolo di Cimabue (e di Cavallini), senza quel particolare pigmento la Cappella degli Scrovegni oggi non potrebbe ammaliarvi con quello che è considerato il blu per eccellenza. Dunque, ha ragione chi, come la storica Anthea Callen, sostiene che «ogni opera d’arte è determinata in primo luogo e soprattutto dai materiali a disposizione dell’artista».
È fuor di dubbio che Giotto e solo Giotto, con la sua capacità di manipolare il “blu oltremare” insieme all’azzurrite (un carbonato di rame), poteva realizzare il capolavoro che ancora oggi ammiriamo nella Cappella degli Scrovegni. Ma allo stesso modo è certo che neppure Giotto avrebbe potuto creare quel capolavoro se non avesse avuto a disposizione quel pigmento. E che dire del giallo con cui Vincent van Gogh ha immortalato (tra l’altro) i suoi girasoli della serie di Parigi e della serie di Arles? Non li avremmo mai potuti ammirare, con tutte quelle tonalità dal giallo arancio al giallo brillante, se i chimici non gli avessero offerto gli opportuni pigmenti a base di cromato di piombo. Pigmenti che non si trovano in natura. Pigmenti artificiali. Ha ragione Adriano Zecchina, autore di un documentatissimo libro sulle alchimie nell’arte: «L’Impressionismo ha coinciso con il grande sviluppo della chimica moderna».
È grazie alla chimica moderna, infatti, che la tavolozza dei colori a disposizione dei pittori si è arricchita enormemente. La chimica intesa nella sua doppia accezione, di scienza e di industria. I chimici scienziati hanno creato nell’Ottocento un’enorme quantità di nuovi pigmenti: nel volgere di pochi anni, i 17 pigmenti a disposizione dei pittori sono diventati 60. E l’industria chimica li ha prodotti e distribuiti in massa. Come ricorda Zecchina, nelle botteghe artigiane del Rinascimento gli apprendisti erano impegnati per molte ore del giorno a mescolare sostanze e pigmenti e a “creare” colori. Alla fine dell’Ottocento i pittori avevano a disposizione comodi tubetti di zinco con tutte le varietà di colori che volevano: bastava acquistarli in qualche negozio neppure troppo specializzato. Se Walter Benjamin ha scritto sull’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, è ancora tutto da scrivere un libro sulla pittura nell’era dell’enorme esplosione dei pigmenti. Per la verità, un buon inizio è proprio il libro di Zecchina. Ma forse alcuni temi andrebbero ancora approfonditi. Per esempio, dovremmo approfondire il tema della stabilità nel tempo dei pigmenti usati dagli artisti nell’era della loro illimitata disponibilità. Siamo proprio sicuri che il giallo dei girasoli che vedeva van Gogh sia lo stesso che vediamo noi?
Non stiamo alludendo al fatto che l’olandese aveva una malattia degli occhi che alterava la visione dei colori, in particolare del giallo, ma al fatto che i pigmenti a base di cromato di piombo si modificano nel tempo. In altri termini i “gialli di van Gogh” che noi vediamo oggi sono diversi e meno brillanti di quelli che vedevano a fine Ottocento coloro che ebbero la fortuna di guardare i suoi quadri.
Un secondo tema da approfondire è quello dal rapporto tra chimica e salute, che si è posto con l’evoluzione e la produzione in quantità enorme dei pigmenti. Pare proprio, per esempio, che sia il cromato di piombo sia il verde smeraldo (contenente arsenico) che l’olandese utilizzava, abbiano contribuito a destabilizzare la sua salute psichica. La gran parte dei nuovi pigmenti “creati” dalla scienza e diffusi dall’industria chimica nell’Ottocento erano a base di metalli pesanti. Questo ha causato non pochi problemi di salute a molti pittori. Il verde smeraldo, che i chimici chiamano acetoarsenito di rame, pare abbia portato allo sviluppo del diabete in Cézanne. Sempre i nuovi pigmenti avrebbero portato Monet alla cecità, Renoir a lamentare l’artrite reumatoide e Klee a sviluppare una malattia della pelle.
La chimica ha realizzato un’esplosione di colori ma anche, a quanto pare, un’esplosione di malattie professionali in non pochi pittori.
Oggi l’evoluzione dei materiali a disposizione degli artisti si è fermata? Assolutamente no. Anzi! Le nuove tecnologie digitali stanno mettendo a disposizione di chiunque si voglia cimentare una quantità illimitata, praticamente infinita, di colori e di materiali. Colori, tra l’altro, che non attentano alla salute di chi li usa (per quanto ne sappiamo). Quello che manca, forse, è un Giotto o un van Gogh.