Intervista a Elena Cattaneo: “Sono le competenze a dover parlare per noi donne”

“Per capire a che punto è in Italia la rincorsa verso l’emancipazione e la parità, viene in aiuto il Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca dell’Anvur”. Elena Cattaneo va dritta al punto. Il rapporto evidenzia infatti che, nonostante la quota delle donne superi quella degli uomini tra i laureati e tra chi consegue un dottorato di ricerca, gli uomini la fanno da padrone nei gradi superiori della carriera accademica. Carriera che si rivela una corsa impari, un percorso a ostacoli per le donne. “Un dato confermato da uno studio pubblicato nel 2020 sul New England Journal of Medicine che ha replicato un’analisi condotta tra il 1979 e il 1997 sulla differenza di genere nei gradi più alti della carriera accademica nell’area medica”. Vent’anni dopo, lo studio ha riscontrato le stesse disparità. “I dati sono stati definiti dagli autori depressingly consistent. Ma sono sotto gli occhi di tutti”, commenta la scienziata che studia le cellule staminali e i meccanismi di neurodegenerazione nel morbo di Huntington. Direttrice del laboratorio di biologia delle cellule staminali e farmacologia delle malattie neurodegenerative all’università statale di Milano, dal 2013 Elena Cattaneo è senatrice a vita, nominata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e all’attività di ricerca affianca l’impegno per la diffusione della cultura scientifica, convinta com’è che la scienza sia un pilastro della società e che scienziati e scienziate abbiano un ruolo sociale.

Professoressa, nel suo libro Armati di scienza (Cortina Editore) racconta che Rita Levi Montalcini considerava inaccettabile che a condizionare istruzione e affermazione di una persona fosse il fatto assolutamente casuale di avere nel Dna due cromosomi X invece che un cromosoma X e uno Y. Superò dunque l’iniziale contrarietà del padre e le consuetudini dei tempi e si iscrisse all’università, ottenendo poi i risultati straordinari che ben conosciamo. Sono passate decine di anni da allora ma è evidente che c’è ancora tanta strada da fare per un’effettiva parità.

Uno dei preziosi insegnamenti che Rita ha lasciato alle donne di ogni generazione e latitudine è che la conoscenza e lo studio sono strumenti fondamentali di emancipazione e affermazione di sé stessi, mezzi per conquistare e mantenere la propria libertà e di conseguenza ridurre le disparità. Il suo esempio e la sua determinazione dicono che non vi è nulla nella scienza che possa essere precluso a una donna, così come a un uomo, per il solo fatto di essere donna o uomo. Aver tenuto per secoli le donne lontane dalla vita pubblica e dallo studio caricandole, quasi fosse una “zavorra”, dell’aspettativa che restassero confinate alla cura della casa, della famiglia, delle persone più fragili, fa sì che oggi siano costrette a una “rincorsa” per colmare le disparità. Che un cambiamento sia in corso, comunque, è evidente: penso al Nobel per la Chimica alle scienziate Doudna e Charpentier per la rivoluzionaria scoperta del CRISPR-CAS9 oppure, restando in Italia, alla prima presidente del Cnr e alle prime rettrici donne di università storiche come Padova, Firenze e La Sapienza di Roma. Anche nelle istituzioni ci sono sempre più donne al vertice: in questi ultimi anni abbiamo avuto la prima presidente del Senato, della Corte Costituzionale e la prima donna a capo dei Servizi segreti.

Il vero cambiamento sociale si realizzerà però quando non saranno più eccezioni.

Credo che per l’emancipazione delle donne e l’affermazione in ruoli apicali siamo nel bel mezzo di un processo in cui le giovani studiose avranno sempre più figure di donne di successo a cui ispirarsi, in tutti i campi. La rivoluzione in corso è testimoniata anche dai fiumi di inchiostro spesi per la corretta declinazione al femminile di ruoli e professioni un tempo di appannaggio tutto maschile. Il vero cambiamento sociale si realizzerà quando si passerà dall’eccezione alla regola, dal fare notizia al non farla più. Individualmente questo già avviene ogni volta che una giovane donna sente di poter costruire il futuro a partire da un modello che sente proprio.

La carriera delle donne nel campo della scienza è zavorrata da molti pregiudizi. Uno, per esempio, è quello che etichetta le donne come non portate per la matematica. Quali sono secondo lei gli stereotipi più duri a morire?

Conosco diverse donne con ruoli di responsabilità e una famiglia. Purtroppo ne conosco anche altre che, dopo aver dedicato tempo e sacrifici allo studio o al lavoro, si sono fermate, per scelta o per necessità. Alcune probabilmente non potevano fare diversamente, altre forse sono state messe da parte da un sistema che non le percepisce competenti e determinanti al pari dei colleghi uomini e per questo hanno finito per non percepirsi all’altezza. Anche rispetto alla matematica e alle materie scientifiche, credo che le donne partano zavorrate da aspettative per cui, per essere riconosciute “eccellenti”, devono comunque assecondare criteri di non eccentricità rispetto agli uomini. Ma l’essenza del pensiero scientifico è anche disordine, insubordinazione, curiosità che sovverte ogni schema predeterminato. In generale, ritengo che siano le competenze a dover parlare per noi. Oggi nel mio laboratorio di ricerca lavorano più donne che uomini, ma non sono numeri da esporre: esprimono competenze su cui ho voluto puntare. Ecco perché credo che, per favorire e incoraggiare la partecipazione delle donne, nella scienza come in ogni altro ambito della vita pubblica, sia essenziale motivarle riconoscendone le capacità ed eliminando certe rigidità culturali che le vorrebbero sempre pronte a far passare in secondo piano le proprie aspirazioni ed esigenze.

Sempre nel suo libro ha scritto: “Se è vero che il cristallo è noto per la sua durezza, è anche vero che si può infrangere d’un tratto. Si tratta solo di cercare insieme il punto di rottura”. Qual è il punto di rottura del soffitto di cristallo?

Comprendere perché una donna possa trovarsi in una condizione che le impedisce di accedere o progredire in una carriera o che la costringe a rinunciarvi o, ancora, che la penalizza “a prescindere” è compito delle istituzioni e della società. Servono interventi a ogni livello per valutare caso per caso se si tratti di una questione culturale, di discriminazione o di misure pubbliche di welfare poco efficaci. È importante che le ragazze si sentano libere di poter immaginare sé stesse adulte in ruoli di responsabilità, di esprimersi al meglio in qualunque campo sentano più affine ai loro talenti. Il cristallo si infrange non rinunciando mai alle proprie passioni e aspirazioni professionali, impedendo loro di interferire con la costruzione di una vita familiare, e viceversa. Non avere paura di puntare al massimo, di osare, di impegnarsi fino in fondo per quel che si desidera, di sbagliare e di ricominciare ogni volta senza perdere l’entusiasmo è la precondizione per poter realizzare i propri sogni. È questo l’obiettivo comune a cui puntare, nell’interesse di tutti.

Anche perché, se ricerca e innovazione sono decisive per affrontare le sfide globali, è miope non valorizzare tutti i talenti.

Ritengo che sia nell’interesse di tutti comprendere che la questione delle pari opportunità in Italia non riguarda solo le donne. Basti pensare, per esempio, che in alcune aree geografiche e contesti sociali del nostro Paese l’abbandono dell’istruzione e della formazione nei ragazzi tra i 18 e i 24 anni raggiunge tassi a doppia cifra, tra i più alti d’Europa. L’articolo 34 della Costituzione recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Garantire a tutti i cittadini, donne e uomini, le stesse condizioni di partenza nell’ambito della formazione è l’unico modo per dare senso alla parola “merito”. Limitarsi a premiare chi vince la corsa, senza curarsi se alcuni per sorte gareggino con i piedi legati, è il trionfo delle “impari opportunità”. Non è un caso che l’articolo 3 della Costituzione, nello stabilire l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, individui tra i compiti fondamentali della Repubblica quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona”. A tutti andrebbe garantita la possibilità di realizzare il proprio potenziale e di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita proprie e altrui attraverso una competizione ad armi pari. I presupposti perché ciò si realizzi sono condizioni di partenza, se non identiche, almeno paragonabili e quindi massima libertà nel poter mettere in competizione le proprie idee e capacità, trasparenza nei sistemi e nei criteri di valutazione. Una regola di giustizia, senza genere né età.

Servono azioni concrete per contrastare le disparità e alimentare quel cambiamento culturale che è necessario per una società più equa e inclusiva. L’Europa ha introdotto il Gender Equality Plan quale prerequisito per i progetti Horizon e sulla stessa scia il Pnrr ha introdotto il “Bilancio di genere” e il “Piano di uguaglianza di genere”. Che cosa ne pensa?

In generale ritengo si possa guardare con favore a misure ad hoc per attenuare le disparità, superare ostacoli iniziali e innescare percorsi virtuosi, penso per esempio all’introduzione di meccanismi che prevedono le quote di genere. Questi meccanismi però possono essere efficaci se circoscritti nel tempo e non devono rimanere azioni isolate, ma essere affiancate da adeguate e opportune risposte di welfare in grado di garantire un equilibrio, per donne e uomini, tra la vita personale e quella professionale. Tutti gli interventi di “discriminazione positiva” di genere o verso ogni tipo di minoranze necessitano di attento monitoraggio e valutazione di efficacia nel tempo. Queste sono le condizioni minime perché siano accettabili socialmente.

Nel 2013 ha portato la scienza in Senato. L’incontro Scienza, innovazione e salute fu il tentativo di inaugurare un dialogo tra scienza e politica alla luce di una sorta di disprezzo o per lo meno di estraneità nei confronti della cultura scientifica che attraversava il Paese. Oggi quel dialogo appare più che mai necessario. Non sarebbe opportuno che anche l’Italia si dotasse di un ufficio di consulenza scientifica a supporto dell’attività legislativa, come auspicato dall’iniziativa Scienza in Parlamento?

Gli ultimi due anni hanno messo in luce una questione fondamentale: la mancanza di luoghi abituali e strutturati di dialogo e confronto tra politica e scienza. Con la pandemia, la politica si è accorta di quanto la scienza possa esserle utile nel prendere decisioni basate su dati, anziché su opinioni o mero consenso, ma questa frequentazione improvvisa e inedita ha mostrato tutte le difficoltà di un rapporto tra due mondi che non si conoscevano e che non parlano la stessa lingua. Lo abbiamo visto, per esempio, nella iniziale pretesa politica di avere dalla scienza “risposte certe”, senza capire che la scienza non è un juke box che “eroga” la risposta desiderata. Senza lo studio, senza il tempo per l’approfondimento, la verifica, l’esperimento, il confronto anche aspro sui risultati che è tipico del dibattito scientifico, non possono esistere evidenze scientifiche. Iniziative come Scienza in Parlamento promossa da studiosi, giornalisti e comunicatori avevano chiarito da tempo la necessità di dotare l’Italia di strutture che garantiscano stabilmente una consulenza scientifica al servizio dell’attività legislativa, come ne esistono nel Regno Unito, in Francia, Germania, Olanda, Austria, Norvegia, Svizzera e Danimarca. Tra le istituzioni europee, il Parlamento può contare su una struttura chiamata STOA, mentre la Commissione gode di un servizio scientifico di supporto e consulenza denominato Joint Research Centre (Jrc). Mi preoccupa che nel nostro Paese non si sia mai avviata una seria discussione su una questione così cruciale per il nostro futuro.

 

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