L’Europa nata dalle migrazioni forzate

In redazione ci piace di tanto  in tanto riproporre qualche articolo del compianto Pietro Greco, ci sembra serva a mantenerne vivo il ricordo e a godere ancora una volta della sua intelligenza e competenza. Questo è uno di quei casi

La storia dell’Europa a cavallo della seconda guerra mondiale è (anche) un’inedita e drammatica storia di migrazioni forzate. Di una vera e propria serie di pulizie etniche. E non solo quelle perpetrate tra il 1939 e il 1943 da Hitler e da Stalin che hanno sradicato, trapiantato, deportato e disperso 30 milioni di europei. Ma anche l’Europa progressivamente liberata dai nazifascisti subisce tra il 1943 e il 1948 “un’immensa operazione di pulizia etnica e trasferimento di popolazioni”, come afferma Tony Judt nel suo recente e poderoso Postwar. La nostra storia 1945-2005, pubblicato da Laterza nel 2017. Dove la nostra storia è riferita, appunto, a quella europea. Nei cinque anni successivi al 1943 vengono trasferiti, con il consenso anche delle potenze occidentali, altri 20 milioni di persone. In meno di dieci anni i migranti forzati in Europa superano dunque i 50 milioni.

La gran parte di questi trasferimenti coatti riguarda la Germania e l’Europa orientale. Nel corso del conflitto i nazisti non solo trasferiscono (e uccidono) quasi 6 milioni di ebrei, in grandissima maggioranza dall’est, ma mandano via dalle loro case o dalle loro terre anche milioni di polacchi e di altri slavi. Con il ritiro degli eserciti dell’Asse dall’Europa orientale, le migrazioni continuano, ma con un segno inverso e coinvolgono i tedeschi. Sia quelli che si sono appena insediati nei territori occupati dalla Wermacht sia i tedeschi che vi abitano da generazioni, persino da secoli.

Non c’è dubbio che, tra il 1943 e il 1948, il maggior numero di migranti forzati siano per l’appunto tedeschi. La Cecoslovacchia già nel giugno 1945 ne espelle tre milioni: durante il trasferimento in Germania ne muoiono, di stenti e maltrattamenti, 267.000. Quella ceca è, per l’appunto, una vera e propria operazione di pulizia etnica: prima della guerra in Boemia e Moravia i tedeschi rappresentavano il 29% della popolazione, nel 1950 si sono ridotti a non più dell’1,8%. Anche altri Paesi espellono i tedeschi: 623.000 l’Ungheria; 786.000 la Romania; 500.000 la Yugoslavia; 1,3 milioni la Polonia. A tutti questi si aggiunge un numero ancora maggiore – circa 7 milioni – di espulsi dagli ormai ex territori orientali del Paese: Slesia, Prussia, Pomerania, Brandeburgo orientale. In breve, continua Tony Judt: “L’Europa orientale [viene] ripulita della sua popolazione tedesca”.

Si calcola che i tedeschi costretti a cambiare casa e Paese di residenza siano almeno 13 milioni. Tutti si dirigono (sono costretti a dirigersi) verso la Germania. I Vetriebene, così vengono chiamati, giungono in 9 milioni a Ovest, mentre in 4 si fermano nelle aree occupate dall’Armata Rossa. Tutti contribuiscono a creare non solo un nuovo problema per il Paese distrutto e occupato da eserciti stranieri, ma anche a realizzare qualcosa di assolutamente inedito nella storia: un’Europa divisa in frammenti nazionali monoetnici.

Migranti forzati, infatti, non sono solo i tedeschi. Tra l’ottobre 1944 e il giugno 1946, per esempio, l’Urss impone il trasferimento in Polonia di 1.5 milioni di polacchi (quasi un milione dalla sola Ucraina occidentale) e di 500.000 ucraini dalla Polonia in Ucraina. Nei medesimi mesi la Bulgaria espelle 160.000 turchi. L’Ungheria scambia con la Cecoslovacchia 120.000 slovacchi che vivono nei suoi confini con altrettanti ungheresi che vivono in Cecoslovacchia. In Yugoslavia 600.000 tra italiani e tedeschi vanno via a forza e il vuoto demografico viene riempito con 400.000 slavi provenienti dal sud del Paese.

Il turbinio di spostamenti coatti disegna un quadro specularmente opposto a quello del 1919. Come scrive Judt: “Alla fine della prima guerra mondiale si reinventarono e ridisegnarono i confini, mentre i popoli furono in genere lasciati dove si trovavano. Dopo il 1945, invece, accadde il contrario: con una sola importante eccezione [la Polonia], le frontiere rimasero sostanzialmente inalterate, mentre furono spostate le persone”.

Alla fine della seconda guerra mondiale, tranne piccole eccezioni, tutte le terre conquistate sono restituite alle nazioni cui appartenevano e dal punto di vista dei confini si ripristina così lo status quo ante. Ma la popolazione in queste vecchie nazioni viene resa omogenea con la forza. Nasce “così una nuova e più compatta Europa”. Non sono, queste migrazioni forzate, un effetto spontaneo della fine della guerra. Non potrebbero esserlo, per le loro dimensioni. Sono avallate a Potsdam dalle tre potenze vincitrici e, specificatamente, da Harry Truman, Clement Attlee e Josif Stalin, che decidono in maniera esplicita, come scrive Anne Applebaum in La cortina di ferro, pubblicato da Mondadori nel 2016, il “trasferimento in Germania delle popolazioni tedesche (…) che rimanevano in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria”. Ovviamente dispongono che tutto avvenga “in maniera ordinata e umana”. Quella che con la forza o con gli accordi politici esce dalla guerra – tranne che in Urss e in Yugoslavia – è dunque un’Europa assolutamente inedita, divisa in frammenti monoetnici. Così, quel nazionalismo che si voleva mettere al bando viene invece alimentato.

Al dramma dei migranti su base etnica se ne aggiungono altri di diverso tipo ma, tutto sommato, anch’essi forzati: i prigionieri e i rifugiati. Nel settembre 1945, senza tenere conto dei tedeschi, i rifugiati nelle zone occupate dalle potenze occidentali sono 6,8 milioni e quelli nelle zone occupate dall’Armata Rossa, 7 milioni. La maggior parte sono russi. Ma ci sono anche: 2 milioni di francesi; 1,6 milioni di polacchi; 700.000 italiani. Di loro si occupa, con una certa tempestività ed efficacia, un’agenzia della neonata Organizzazione delle Nazione Unite: l’Unrra (United nations relief and rehabilitation administration), che tra il luglio 1945 e il giugno 1947, per affrontare i problemi della cura – nel giugno 1945 gestisce 227 campi di accoglienza, che diventano 762 nel giugno 1947, quasi tutti nella Germania controllata dalle potenze occidentali – e dei rimpatri, spende 10 miliardi di dollari, la gran parte nei Paesi dell’Europa orientale. Nel dicembre 1946 nasce l’Iro (International refugee organization) che, sempre sotto l’egida delle Nazioni Unite, compartecipa alla gestione di questa enorme emergenza.

Gli ebrei sopravvissuti all’olocausto sono assistiti in maniera separata, nell’area occidentale, soprattutto in Germania. Ma la loro ricollocazione non è semplice: non sono molto bene accetti, nemmeno in Occidente. Tra il 1948 e il 1951 in 332.000, assistiti dall’Iro, migrano in Israele, mentre solo 165.000 trovano una casa e un lavoro nell’Europa occidentale, in America o in Australia. Il rimpatrio dei rifugiati e dei prigionieri occidentali è invece rapido. Degli 1,2 milioni di francesi trovati in Germania dopo la resa, per esempio, tutti – tranne 40.000 – vengono rimpatriati in poco più di un mese: entro il 18 giugno. Molto più lenta e controversa è la vicenda del rimpatrio dei sovietici. Occorrono anni per il loro ritorno, spesso coatto, in patria. Comunque sia, entro il 1953 tornano in Urss all’incirca 5,5 milioni di russi. Oltre un milione viene giustiziato o muore in un gulag. Altrimenti finiscono in Siberia. Stalin non ama avere nel Paese persone che hanno avuto contatti con gli occidentali.

Non c’è dubbio alcuno, l’Europa che emerge dalla lunga guerra civile durata trent’anni sperimenta cosa sia la “migrazione forzata” su larghissima scala. E nasce su nuove basi, monoetniche, alla cui luce si possono (si devono) leggere molte vicende e molte degenerazioni attuali.

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