Ingabbiare il tempo in schemi artificiali è da sempre un’esigenza umana. L’aspetto più interessante e sorprendente di questa attività è il “come”. Paolo Gangemi, matematico per vocazione e giornalista scientifico per scelta, parte dalla riflessione sul tempo per arrivare ai diversi modi che gli uomini hanno di suddividerlo per tentare di farlo proprio. Una nuova avventura che si è tradotta in un agile saggio, Le misure del tempo (Codice editore, 2021) in cui, guidato dalla consueta brillante curiosità, spalanca le porte dell’affascinante universo delle ere e degli eoni, dei secoli e degli anni, dei minuti e dei secondi.
Da dove nasce l’idea di occuparti di una materia così vasta come la misurazione del tempo?
L’idea mi era venuta molti anni fa. Scrivendo un libro di biografie di matematici ho scoperto la bellissima figura di Quirico Filopanti, un “buonista” (come si direbbe oggi) e un patriota garibaldino. Non era un grande matematico, ma per primo ha avuto l’idea dei fusi orari: una vera rivelazione. Più recentemente, le polemiche sull’eventuale abolizione dell’ora legale in Europa hanno risvegliato quella mia vecchia idea.
Non avevi paura di trovare troppo materiale da consultare, troppi testi da leggere, troppi video da visionare? Di non avere il tempo di analizzare il tempo? Di perdere troppo tempo dietro il tempo?
Sì, il materiale era sconfinato: ognuno dei capitoli di questo libro meriterebbe un libro a sé. Però a un certo punto bisogna tuffarsi. Parlando di tempo, un verso del poeta Paul Celan recita: “È tempo che sia tempo”.
Hai scritto un libro diviso in 47 episodi in cui narrativa, curiosità e aneddoti si intrecciano. Quali sono gli episodi più divertenti?
A proposito dell’ora legale, una volta hanno chiesto a un contadino della provincia di Cuneo che cosa ne pensasse e lui ha risposto: “Non la considero. Io mungo le vacche tutte le mattine alla stessa ora, alle 5, estate e inverno”. Poi c’è l’Antropocene, l’epoca geologica in cui viviamo, chiamata così perché condizionata dalle attività umane. Qualcuno ha voluto trovare responsabilità più specifiche dal punto di vista geopolitico, parlando di Anglocene e di Capitalocene; le variazioni sul tema sono innumerevoli, anche semiserie, come il Coca-colocene. Ci sono anche episodi storici assurdi come quello degli svedesi, che prima hanno abbracciato il calendario gregoriano e poi sono tornati indietro: si sono “incartati”, come si dice, e nel 1712 si sono trovati con un incredibile 30 febbraio.
C’è qualcosa che ti ha sorpreso?
Questo è il mio settimo libro di divulgazione, ma il primo in cui tratto anche argomenti di cui sapevo poco. È stato bellissimo fare tante scoperte e spero che la mia meraviglia si trasmetta ai lettori: sarebbe la cosa a cui terrei maggiormente. Soprattutto, mi sono reso conto di come misurare il tempo sia sempre stata una questione di potere. In Giappone, anticamente, i calendari erano così complicati che chi li padroneggiava, in un certo senso, comandava sul tempo: la forma di potere più totale mai vista. Lo dimostrano anche in Occidente i tentativi di cambiare i calendari: quelli riusciti, come quello di Giulio Cesare e quelli abortiti, fra cui il calendario rivoluzionario francese. Ancora, più recentemente, i francesi hanno portato avanti a lungo, ma invano, una lotta di potere contro il meridiano di Greenwich, quello che “detta il tempo”.
Le tue storie sul tempo sembrano proprio aver superato quella divisione delle due culture di cui parlava Charles Percy Snow. È questa la via da seguire anche nella divulgazione scientifica?
Questa è sempre stata la mia vena. Ma, se avessi la risposta universale su come fare divulgazione scientifica, meriterei il premio Nobel!