Il monument man George Clooney gli avrebbe dato la caccia per tutta l’Europa. Ma per sua fortuna, Gaspard Monge non ebbe a che fare con alcunché di simile alla struttura che gli americani misero in piedi tra il 1944 e il 1945 per dare la caccia alle opere d’arte trafugate dai nazisti. Anche se, in un certo senso, se lo sarebbe meritato. Monge, mente matematica di prima grandezza e padre della geometria descrittiva, visse tra Settecento e Ottocento nella Francia illuminista, rivoluzionaria e napoleonica. E fu proprio al servizio del generale Bonaparte che nel 1796 lo scienziato, in quel momento cinquantenne, calò in Italia come membro di spicco della commissione speciale creata per sovrintendere al sequestro e alla spedizione delle opere d’arte che Napoleone aveva ottenuto come indennità di guerra dagli stati dell’Ancien Régime dopo la fulminante campagna d’Italia.
Alla base della razzia (legalizzata dai trattati, ma sempre razzia) c’era la convinzione, espressa pubblicamente dal commissario del Direttorio Nicolas François de Neufchateaux, che i capolavori, prima nascosti dentro chiese, conventi e palazzi nobiliari, sarebbero stati finalmente goduti da tutto il popolo grazie alla rivoluzione. Insomma era giusto che “queste opere d’arte, lungi dal costituire un bottino frutto di saccheggi, arrivassero a Parigi come regali dei popoli liberati per onorare la novella Atene, patria della libertà e dimora legittima delle testimonianze del genio umano”. Opere d’arte immense, non paccottiglia: il corteo di carri carichi di bottino e ornati di ghirlande di fiori che sfilò a Parigi il 27 luglio 1798 conteneva tra l’altro i quattro cavalli bronzei di San Marco, la Venere capitolina, il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, la Trasfigurazione e l’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, le Nozze di Cana del Veronese. In tutto 300 fra statue e quadri, più di 500 manoscritti, 7 grandi cartelle di disegni e 83 volumi di stampe. Tesori provenienti dalle chiese di Milano e di Bologna, dal Santuario di Loreto (fu portata via la statua della Madonna, oggetto di grande venerazione popolare), dalla Biblioteca Marciana a Venezia e dai Musei Vaticani. Monge fu scelto per sovrintendere a tutto questo bendidio per due motivi: era già uno scienziato affermato, con interessi che andavano dalla matematica alla chimica, alla fisica e perfino alla metallurgia. E poi era di un’onestà personale a tutta prova, in un momento in cui non pochi capi francesi erano caratterizzati da una certa disinvoltura nei confronti della proprietà privata. Insomma rubavano, non di rado a man bassa. Tanto per dirne una, Andrea Masséna, peraltro generale di grandi tenacia e bravura, era talmente dedito al saccheggio personale da provocare nel febbraio 1798 a Roma una rivolta dei suoi stessi soldati, stanchi di non ricevere il soldo mentre il comandante si arricchiva, subito seguita da un’insurrezione popolare da parte dei romani taglieggiati.
La discesa in Italia
Se di questa spedizione sappiamo molte cose lo dobbiamo proprio a Monge, il quale scrisse dall’Italia numerose lettere al Direttorio, allo stesso Napoleone e soprattutto alla moglie Catherine Huart, sposata nel 1777. Le lettere sono state tradotte in italiano e pubblicate nel 1993 a cura di Sandro Cardinali e Luigi Pepe con il titolo Dall’Italia 1796-1798 per la Sellerio. Ne emerge un quadro tipico dell’uomo, curioso di tutto e di tutto partecipe, sempre comunque attraverso la lente, a volte deformante, dell’entusiasmo rivoluzionario.
Quando si recò a Firenze, che si era salvata dal saccheggio grazie alla politica prudente del Granduca Ferdinando III, Monge sottolineò che le tante opere dell’arte e dell’ingegno umano custodite nella capitale toscana non potevano che essere state concepite e realizzate negli anni in cui la città era repubblicana. Firenze, scrisse, “ha compiuto tutti questi miracoli solo all’epoca in cui era una piccola repubblica democratica. Da quando è governata da un unico capo non è riuscita a produrre più nulla e i fiorentini, tutti cicisbei, trascorrono intere giornate ad assecondare i miseri capricci delle loro dame, a scarrozzarle continuamente qua e là, a portare a passeggio i loro cagnolini, a raccogliere i loro ventagli, cioè a far scemenze”. A Roma, appena strappata al Papa e dove si recò due volte, una per organizzare il trasporto delle opere d’arte spettanti alla Francia dopo il trattato di Tolentino (oltre a 30 milioni in oro e diamanti) e l’altra per aiutare (invano) l’organizzazione dell’effimera Repubblica romana, restò inorridito dallo “spettacolo desolante: campi incolti, terre disabitate, completamente prive di villaggi e di case”. Poi descrisse così lo stato della Città Eterna: “Sono trasecolato quando ho visto in che stato di abbrutimento è costretto a vivere un popolo retto da un governo che si fonda sull’impostura e che, da dieci secoli, sopravvive solo grazie alle sovvenzioni delle nazioni cristiane […] Questa miserabile città sta agonizzando: i suoi abitanti sono incolti e senza occupazione, le attività commerciali pressoché inesistenti. Roma sopravvive solo grazie alla misericordiosa carità che riceve dalle nazioni cattoliche”.
Lo scienziato svolse il suo lavoro di requisizione con efficienza, precisione e onestà, rispettando alla lettera le istruzioni di Bonaparte, desideroso che la spoliazione delle opere d’arte rispettasse la legalità formale prevista dai trattati di pace. Arrivò a progettare dei carri speciali per il trasporto delle opere più grandi e pesanti (si pensi al Laocoonte, un gruppo marmoreo alto 242 cm), tirati dai giganteschi bufali della Maremma. Statue e quadri furono imballati con accorgimenti speciali messi a punto dallo stesso Monge per evitare danni durante il transito sulle dissestate strade dell’epoca. I convogli, scortati da soldati armati per fare fronte ai briganti, partirono in diversi scaglioni per non dare nell’occhio e viaggiarono su strada fino a Livorno, da dove partirono via mare per Tolone e poi da lì per via fluviale fin quasi a Parigi.
Nel maggio del 1798 l’immane opera era compiuta e Monge ritornò in Francia. Non senza aver dato prova della sua insaziabile curiosità con una relazione di 8 pagine, pubblicata nell’autunno del 1799 sugli Annali di Chimica, su “la fabbricazione di formaggio del Lodigiano, conosciuto sotto il nome di Parmigiano” [che però forse era Grana Padano a brevissima stagionatura, a giudicare dalla zona di produzione N.d.A.].
Genio e rivoluzione
Da tutto quello che abbiamo raccontato finora, si comprende come Monge sia stato un uomo profondamente immerso nel suo tempo, proprio il contrario dello studioso chiuso nella torre d’avorio. Facilitato, in questo suo proporsi al mondo, dall’essere vissuto in uno straordinario periodo della storia europea e in un Paese, la Francia, rischiarato dai lumi degli enciclopedisti e percorso da un fermento rivoluzionario che mise a soqquadro culture e regimi.
Il matematico nacque a Beaune, in Borgogna, il 10 maggio 1746 in una famiglia di modeste origini (il padre era un venditore ambulante di coltelli nelle fiere di paese). Dimostrò molto presto il suo genio: a 14 anni progettò e costruì una pompa antincendio e ai suoi concittadini che gli chiesero come aveva fatto, replicò di aver impiegato “due mezzi infallibili, una tenacità a tutta prova e le mie dita, che hanno tradotto il mio pensiero con una fedeltà geometrica”. In queste parole, ha scritto Eric Bell nel suo libro su I grandi matematici pubblicato in Italia da Rizzoli-Bur, “sono riassunte la parte matematica della carriera di Monge e una buona porzione del resto” poiché egli “era nato geometra e ingegnere e possedeva il dono incomparabile di rappresentarsi mentalmente le più complesse relazioni spaziali”.
A 15 anni ottenne la cattedra di fisica al collegio degli oratoriani dove aveva studiato, a 16 un brillante rilievo topografico della sua città natale, per eseguire il quale si era costruito da solo gli strumenti, gli schiuse le porte della scuola militare di Mézières per ufficiali del genio. La vulgata racconta che le umili origini gli impedirono di essere ammesso tra gli allievi ufficiali e fu costretto a frequentare i corsi per sottufficiali e tecnici, quelli incaricati di eseguire compiti di agrimensura e disegno. E che proprio questa esclusione gli avrebbe inoculato il germe della rivoluzione che lo avrebbe poi portato ad aderire con entusiasmo alle idee giacobine. Tuttavia un lungo articolo firmato da Emmanuel Grison e pubblicato nel 2000 sul bollettino della Sabix, la Società degli amici della biblioteca e della storia de l’Ecole Polytechnique, mette in dubbio questa lettura degli eventi. Monge a Mézières ebbe un tale successo che nel giro di un anno divenne tutor e dopo un altro anno titolare della cattedra di geometria. A questo punto, si domanda Grison, perché mai avrebbe dovuto rammaricarsi di non essere diventato allievo ufficiale quando gli si spalancava davanti una prestigiosa carriera accademica a lui sicuramente più congeniale? Qualunque sia la verità, certo è che a Mezieres il giovane studioso sbocciò in piena fioritura. Lavorando sulle fortificazioni (la Francia fin dall’epoca di Vauban, seconda metà del XVII secolo, era stata la culla dell’ingegneria militare), Monge mise a punto un sistema che rendeva inutili i complicati calcoli aritmetici fino a quel momento impiegati per la progettazione. Un sistema semplice e intuitivo, per di più, tanto che quando molti anni dopo, nel 1794, il matematico Joseph Louis Lagrange se lo sentì spiegare dallo stesso autore, commentò: “Prima di sentire Monge, non sapevo di conoscere la geometria descrittiva”. In poche parole si trattava di rappresentare un oggetto tridimensionale su un solo piano grazie al sistema delle proiezioni ortogonali. Per capirlo, spiega sempre Eric Bell, basta immaginare un libro tenuto orizzontale e aperto a 90° in modo da formare due piani, uno orizzontale o pianta e uno verticale o prospetto. A questo punto il corpo tridimensionale viene proiettato sui due piani tramite rette perpendicolari a ciascuno di essi in modo da ottenerne due proiezioni. A quel punto basta aprire del tutto il libro et voilà, si ha la rappresentazione di un oggetto a tre dimensioni su un solo piano. Il metodo fu considerato così rivoluzionario che per molti anni, appunto fino al 1794, la sua illustrazione e le relative applicazioni all’arte militare furono considerate un segreto di Stato.
L’ascesa scientifica
A quel punto la carriera di Monge non ebbe più limiti. Nel periodo che va dal 1771, quando mandò all’Accademia delle Scienze di Parigi i suoi primi lavori teorici sulla geometria differenziale, al 1790 e allo scoppio della rivoluzione, il giovane studioso fu un vulcano in attività. Era in relazione con i più grandi sapienti del tempo: d’Alembert, Condorcet, Lavoisier. Diventò prima corrispondente dell’Accademia delle scienze, poi, nel 1780, membro aggiunto dello stesso organismo.
Furono proprio la geometria descrittiva e quella analitica (quest’ultima gli deve anche il nome) a dargli la notorietà e il posto nella storia. Propose la soluzione delle equazioni a derivate parziali di primo ordine. Era molto impegnato nell’insegnamento. Siccome tra i suoi studenti c’erano anche gli allievi ufficiali della Marina, fece lunghi viaggi a Rochefort e Brest. Aveva una cattedra anche di fisica e intraprese, con il chimico Lavoisier, una serie di esperimenti sulla sintesi dell’acqua. Si interessò perfino di siderurgia, approfittando del fatto che la famiglia di sua moglie possedeva una piccola fonderia. Così visitò Le Creusot, culla della metallurgia francese, e studiò la raffinazione del minerale ferroso in collaborazione con il chimico Claude Louis Berthollet e con il chimico e matematico Alexandre Téophile Vandermonde. Tutte esperienze che gli vennero utili quando, nel 1794, assunse il compito di riorganizzare e dirigere la produzione di cannoni per la Repubblica assediata dall’Europa.
Fu non solo un capace e amato insegnante ma anche un grande organizzatore didattico, preoccupandosi della scarsa attenzione data alla scienza nei programmi scolastici e fondando quindi quella Ecole Polytechnique da cui sono usciti i grand commis francesi degli ultimi due secoli. Il professor Vito Cardone, docente ordinario di Disegno dell’architettura del Dipartimento di Ingegneria civile dell’Università di Salerno, che a Monge ha dedicato due volumi, in un’intervista al periodico Tesla ha descritto Monge come un docente che chiedeva ai suoi studenti “impegno rigoroso e lo studio della teoria, ritenuto necessario per affrontare le questioni pratiche, stimolando il loro spirito critico, la loro creatività, l’autonomia di approccio e di pensiero”.
La storia chiama
Quando scoppiò la rivoluzione, Monge, patriota, illuminista e uomo di scienza com’era, fu pronto, scrive Grison, “a mobilitarsi tanto contro il dispotismo dei tiranni che contro il fanatismo dei preti e la superstizione”. Ma era più studioso che uomo d’azione e politico. Tanto che quando, nel 1792, la Convenzione gli affidò il ministero della Marina, pare non abbia dato buona prova di sé. Madame Manon Roland scrisse nelle sue memorie che “lo stato triste in cui versa oggi la nostra marina prova fin troppo bene la sua inettitudine e la sua nullità. Abituato a fare i conti con fattori inalterabili, Monge non si intende né di uomini né di amministrazione”. Bisogna dire che Madame Roland era incline alle critiche taglienti e, in quanto moglie del leader dei moderati girondini Jean Marie Roland, non poteva vedere di buon occhio il giacobino Monge. Fu del resto proprio l’appartenenza girondina a portare l’anno dopo la donna sulla ghigliottina. E fu lei che, mentre si dirigeva verso il patibolo, passando davanti alla statua della libertà, avrebbe detto la famosa frase: “O libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome”.
Del resto erano tempi grami, tanto che dopo un po’ fu lo stesso Monge, in quanto sostenitore della legge agraria, a essere condannato a morte dal Comitato di salute pubblica. Solo la fuga e il passaggio alla clandestinità impedirono al genio della matematica di fare la fine del suo amico Lavoisier che scontò con la ghigliottina, l’8 maggio del 1794, a 51 anni, il suo passato di esattore delle tasse. A chi gli faceva notare che uccidendo Lavoisier la Francia avrebbe perso una grande mente, pare che il giudice Jean Baptiste Coffinhal, presidente del Tribunale rivoluzionario, abbia risposto: “La Repubblica non ha bisogno di dotti”.
L’incontro con Napoleone
Finito il Terrore (luglio 1794) e cancellata la condanna a morte, Monge “riemerse” per tornare alle sue attività didattiche e scientifiche. Fino al viaggio in Italia con cui abbiamo aperto la nostra storia: l’incontro con Napoleone fu per Monge un’epifania. Scattò nei confronti del generale un vero e proprio amore, tanto che Emmanuel de Las Cases, nel suo Memoriale di Sant’Elena, fa dire all’ex imperatore in esilio: “Monge aveva una specie di culto per me, c’era dell’adorazione: mi amava come se fossi sua moglie”.
C’è da dubitare che il cinico Napoleone abbia totalmente ricambiato questo amore incondizionato. Ma certo colmò lo scienziato di onori e prebende. Dopo il suo ritorno dall’Italia e il successo della requisizione di opere d’arte, lo portò con sé in Egitto, nella spedizione, messa in piedi per espellere la Gran Bretagna dal Mediterraneo e minacciare l’India, che ebbe un esito nefasto con la distruzione della flotta francese a opera dell’ammiraglio britannico Horatio Nelson nella battaglia di Aboukir (1798). Monge fu incaricato di mettere insieme un gruppo il più possibile vasto di studiosi che potessero sfruttare la spedizione a scopo scientifico e di conoscenza. Riuscì a portare al seguito dell’esercito circa 150 esperti in tutti i rami dello scibile: matematici, chimici, geometri, medici, architetti, pittori, botanici. Il frutto più importante della spedizione fu la scoperta, grazie alla stele di Rosetta, del significato della scrittura geroglifica. Monge fondò l’Istituto egiziano, centro culturale in nome del quale furono lanciate missioni di esplorazione e di rilevamento cartografico che produssero una mappatura accurata della regione nilotica. Altri importanti ritrovamenti archeologici si registrarono nel sito dell’antica città di Pelusio, nella parte orientale del Delta del Nilo, a 30 km dall’attuale Porto Said. Ma la spedizione fu funestata da una rivolta degli egiziani il 21 e 22 ottobre 1798 che portò all’uccisione di alcuni componenti dell’équipe scientifica e alla distruzione di molti strumenti. Anche le operazioni militari non ottennero i risultati strategici previsti e alla fine, il 23 agosto del 1799, Napoleone tornò in Francia accompagnato da Monge e Berthollet.
La fascinazione che il Grande Còrso esercitava su Monge non svanì nemmeno con il progressivo tradimento, da parte del generale, degli ideali rivoluzionari, prima con il colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) che instaurò il Consolato e poi con la proclamazione dell’Impero (18 maggio 1804). Lo scienziato fu comunque ricompensato per la sua fedeltà con la nomina a senatore, il conferimento della Legion d’Onore e il titolo di conte di Pelusium, in ricordo della spedizione egiziana. Fu soprattutto libero di insegnare analisi matematica e geometria descrittiva al suo adorato Polytechnique, di cui fu anche direttore fino al 1809. Una salute sempre più malferma lo allontanò via via dalla docenza. Ma il colpo mortale gli fu assestato con l’esilio di Napoleone all’Elba (1814) e poi, dopo i Cento giorni in cui era tornato al fianco del suo eroe, con la sconfitta di Waterloo (1815) e la definitiva caduta dell’imperatore.
Estromesso brutalmente dai suoi incarichi didattici e scientifici, privato di ogni onore dal nuovo regime, Monge morì il 28 luglio 1818, esattamente 200 anni fa, a 72 anni. Ai suoi studenti fu vietato dalla nuova direzione del Polytechnique di partecipare ai funerali. Ma il giorno dopo si recarono in pellegrinaggio sulla sua tomba nel cimitero del Pere-Lachaise, che 50 anni dopo avrebbe visto il massacro dei comunardi, diventando il luogo simbolo della sinistra francese. Nel 1989, bicentenario della rivoluzione cui Monge aveva con tanta passione partecipato, le sue spoglie furono traslate al Pantheon di Parigi.