Mi ero ripromesso di non utilizzare più neppure una goccia d’inchiostro (ammesso si usi ancora…) per parlare dei no-vax. Una decisione sicuramente sbagliata, la mia, dettata dall’emotività seguita al racconto di un collega che era presente alla manifestazione davanti al Ministero della Pubblica Istruzione passata alla storia più per l’ennesimo attacco vigliacco subìto da un giornalista che per le ragioni dei manifestanti.
Lo avevo deciso dopo essermi confrontato con quello stesso collega che, presente alla scena, era intervenuto in difesa dell’aggredito passando in breve tempo da paciere ad aggressore. Il suo era stato un racconto triste, di un professionista sconfitto, amareggiato dalla deriva che la professione sta vivendo: “Ho sbagliato, hanno avuto ragione loro (i no-vax, ndr)”, mi ha detto con la voce ferma. “So bene che non dovevo reagire così ma in quel momento mi sono passati davanti agli occhi gli ultimi due anni e la rabbia ha avuto il sopravvento”.
Due anni. Quelli della pandemia che, invece di unire, ha separato. Due anni di inseguimenti, di computer presi a calci mentre sulle scale di un qualsiasi monumento si cercava di finire il servizio e mandarlo in redazione, di videocamere strappate e danneggiate, di microfoni lanciati tra la folla inferocita, di insulti e schiaffi gratuiti e impuniti. Due anni di “facciamo gruppo, almeno non ci aggrediscono”, due anni di “siete servi”, due anni di “con te non parlo”. Insomma, due anni di umiliazioni, sociali e professionali. Parlando con il mio amico, che non è per niente immaginario, concludevo il discorso con la sentenza con la quale ho iniziato questo sfogo: “A queste persone abbiamo dato troppa importanza, non meritano più una riga”. Una decisione che dal punto di vista giornalistico potrebbe anche essere giusta, vista la pochezza delle loro tesi.
Ma mi sbagliavo. E l’ho capito lavorando a questo numero di Prisma, nel quale abbiamo cercato di raccontare che, quando indipendenza e libertà (di certo non quella invocata spesso a sproposito dai no-vax) procedono a braccetto, a giovarsene è solo la società. Proprio la consapevole riscoperta del ruolo sociale dell’uomo di scienza è la risposta migliore che si può dare.
Una riscoperta che nasce dal confronto, dal saper fare un passo indietro per capire il punto di vista dell’altro. A patto, però, che la scienza sia lasciata libera: di fare ricerca, di sperimentare e anche di sbagliare. Metodi e istanze diverse segnino nuovi territori di esperienza, di formazione, di crescita e di riflessione. Il sapere non può fondarsi né sulle certezze né sulle separazioni disciplinari, ma può mantenersi nella dimensione della ricerca che è il luogo incerto e libero dove la società incontra la scienza.
Buona lettura e tanti auguri a Prisma che proprio questo mese festeggia i tre anni di pubblicazione!
Vincenzo Mulè | Direttore responsabile