C’è tensione in sala operatoria. Le condizioni del paziente stanno peggiorando. Il cardiochirurgo chiede di consultare la tac: indossa il visore per la realtà aumentata e con le mani sospese in aria inizia a ruotare l’ologramma 3D del cuore malato che pulsa. Sarà un intervento al limite del possibile e per questo consulta in tempo reale un noto specialista di New York che, dall’ospedale oltreoceano, risponde collegandosi attraverso il 5G con il suo visore. Sembra una scena da film ma a concepirla sono stati tre giovani bioingegneri: Filippo Piatti, Giovanni Rossini e Omar Pappalardo.
Tra un esperimento e una pausa caffè, nei laboratori del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, i tre ricercatori hanno provato a immaginare il futuro della telemedicina. Supportati dai professori Emiliano Votta e Alberto Redaelli, hanno sviluppato algoritmi per trasformare le immagini piatte di radiografie e tac in precisi e dettagliati modelli anatomici tridimensionali, utili alla preparazione e all’esecuzione degli interventi. Sentivano che le loro ricerche potevano uscire dal laboratorio per cambiare la vita di medici e pazienti. “Come ricercatori e dottorandi, era difficile all’inizio immaginare tutte le competenze necessarie per far crescere un’idea innovativa trasformandola in un progetto imprenditoriale concreto”, racconta Filippo Piatti. Ci voleva qualcuno che li aiutasse a districarsi fra brevetti, business plan e venture capital e quel qualcuno lo hanno trovato a pochi chilometri di distanza, nei palazzoni colorati del quartiere Bovisa che ospitano PoliHub, l’Innovation Park & Startup Accelerator del Politecnico di Milano, gestito dalla Fondazione dell’ateneo.
Nato nel 2000 come acceleratore di impresa, PoliHub oggi è tra i cinque migliori incubatori universitari al mondo, secondo la classifica UbiGlobal Index 2019-2020. Al suo interno si contano più di 130 iniziative: idee in fase di affinamento e valutazione, progetti imprenditoriali in avviamento, startup che hanno già ottenuto finanziamenti e aziende in fase di espansione. A queste si aggiunge una decina di unità di ricerca e sviluppo di aziende consolidate che hanno scelto il Parco di Innovazione del Politecnico per avviare iniziative di open innovation. “Il nostro compito è quello di intuire il potenziale di un’idea immaginando il valore dell’innovazione e l’impatto sul mercato – spiega Stefano Mizio, responsabile dei programmi di accelerazione di startup e dei progetti internazionali di PoliHub. La materia prima non manca, perché i ricercatori italiani sono terzi al mondo per produttività e hanno competenze straordinarie. Sono come pepite: sta a noi scoprirle”.
La prima cosa da fare è trovare il filone d’oro nella miniera delle idee. “Bisogna selezionare progetti innovativi portati avanti da persone con una vera vocazione imprenditoriale: ogni anno ne vagliamo più di mille”. Una volta consolidato il team, entrano in gioco i “mentori”, che aiutano a identificare il modello di business e a verificare se l’idea può avere un futuro concreto. “PoliHub ha investito molto sui mentori e oggi ne conta più di cento”, sottolinea Mizio. “Sono figure senior con anni di esperienza alle spalle e competenze verticali in specifici settori del mercato: noi arricchiamo la loro “cassetta degli attrezzi” con una formazione specifica sul mondo delle startup”. Anche Filippo, Giovanni e Omar sono finiti sotto l’ala dei mentori e nel 2018 hanno fondato la loro startup, Artiness. Un salto, quello da ricercatori a Ceo, che non è scontato. Il tasso di conversione è in media del 50%: solo un progetto su due diventa startup, l’altro non ce la fa.
La nascita della società nello studio del notaio è un passo necessario ma non sufficiente: la sfida per la sopravvivenza è solo agli inizi. “Con le startup ad alto contenuto tecnologico bisogna avere pazienza: serve tempo perché il potenziale possa esprimersi”, osserva Mizio. I primi passi, tra l’altro, possono essere pericolosi. “C’è un alto rischio tecnologico, perché si può scoprire che l’idea non funziona o non è scalabile, e poi c’è il rischio dell’investimento”. Per sostenere i progetti in queste fasi più critiche, nel 2018 il Politecnico di Milano (insieme alla società di venture capital 360 Capital Partners) ha dato vita a Poli360, un fondo di investimento unico in Italia. “Ci aiuta soprattutto nel primo anno di vita della startup, quello incentrato sullo sviluppo tecnologico – spiega Mizio. Superato questo scoglio, è più facile trovare capitali di rischio e business angels disposti a investire sull’impresa nascente”. I giovani di Artiness sono riusciti a conquistare un milione di euro di investimento da parte di Vodafone, il gigante delle telecomunicazioni interessato alle applicazioni della rete 5G. Ora la startup si è allargata (il team conta dieci persone) ed è arrivata sul mercato con i primi prodotti per la formazione dei medici, mentre ha avviato la fase di sperimentazione clinica e la certificazione per l’uso della piattaforma olografica in sala operatoria e da remoto. Una storia di successo a cui se ne stanno aggiungendo molte altre. Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione delle università italiane verso il trasferimento tecnologico che porta le idee dal laboratorio al mercato. In più, sottolinea Mizio, “stanno arrivando gli investimenti pubblici, che possono moltiplicare quelli privati: il Fondo Nazionale Innovazione ha iniziato a investire circa un miliardo di euro, mentre Fondazione Enea Tech porterà altri 500 milioni. C’è di che essere ottimisti”.