“Codesto libro è chiamato del Milione sulle meraviglie del mondo. Ora in esso sono contenute notizie mirabolanti e quasi incredibili; per cui gli amici chiesero all’autore, morente, di emendare la sua opera, e togliere ogni eccesso. E la risposta fu: non ho scritto neppure la metà delle cose che ho visto”. Così scrive Jacopo d’Acqui nel suo Imago mundi seu Chronica, riferendosi al libro cui Marco Polo deve la sua fama. Dettato a Rustichello da Pisa, suo compagno di prigionia nelle carceri genovesi, il libro è poliedrico fin dal titolo che, a seconda della versione, varia da Livre des merveilles du monde, a Livre de Marco Polo citoyen de Venise dit Million, al probabilmente più fedele Le divisament du monde. Il Milione del titolo, con cui è più noto, per alcuni si riferisce alla quantità enorme di informazioni contenute nel testo mentre per altri alla distanza coperta (in milia) dal racconto e dal suo protagonista. La terza ipotesi fa riferimento alle ricchezze del Gran Khan del tempo. Nel libro ci sono tutti questi potenziali “milioni”, acquisiti da Marco Polo a seguito di un viaggio pieno di pericoli almeno quanto di meraviglie. Pensate solo alla lunghezza del viaggio di andata: circa 15.000 chilometri, pari a più di 12 volte l’Italia attraversata a piedi. Marco Polo non fu certo il primo a viaggiare lungo la Via della Seta, l’insieme dei percorsi intrecciati che collegavano Estremo Oriente ed Europa. Alcuni interamente terrestri, altri in parte marittimi. Ravvivata ai tempi del veneziano dalla recente Pax mongolica (il dominio mongolo di steppe, deserti e monti asiatici conseguente alle conquiste di Gengis Khan), la “via” vedeva un intenso passaggio di seta e di oggetti preziosi, di persone e di idee. In primo luogo vi transitavano i religiosi, sospinti dall’illusione di poter evangelizzare i popoli mongoli: pionieri i francescani Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck che, dello sconfinato spazio euro-asiatico, riportarono in Occidente dettagli vividi e costumi di genti lontane. Oltre ai missionari sospinti dalla fede, vi erano i mercanti incentivati dai guadagni: Niccolò e Matteo Polo, rispettivamente il padre e lo zio di Marco, erano già stati al cospetto del Gran Khan del tempo, Kublai, in un viaggio fatto una decina di anni prima. Partiti mercanti, i due Polo tornarono ambasciatori: il Khan, che avevano incontrato nel 1266 a Khanbaliq, l’attuale Pechino, aveva affidato loro il compito di recare al Papa doni e richieste mirate a stabilire contatti con la chiesa cattolica tramite anche l’invio di teologi e sacerdoti in Cina. La missione era quantomeno problematica, perché al momento del loro ritorno il Papa non c’era, dato che il conclave era ancora in corso, dopo mesi, senza costrutto. È qui che entra in scena Marco che, poco più che diciassettenne, accompagna Niccolò e Matteo Polo nella loro seconda spedizione. Nuovamente diretti a Khanbaliq, i tre lasciano Venezia nel 1271 per tornarvi 24 anni dopo. Nel settembre sono ad Acri, in Terrasanta, e da qui passano a Gerusalemme dove, per conto di Kublai Khan, procureranno l’olio della lampada del Santo Sepolcro da portare alla moglie, devota cristiana. Per una coincidenza della sorte, è in quel momento che il conclave trova una via d’uscita eleggendo papa proprio l’arcidiacono in Terrasanta, Gregorio X, appena visitato dai Polo. Con in mano quindi una lettera in cui il nuovo Papa propone a Kublai un’alleanza contro i musulmani, i Polo si dirigono verso nord per mare e poi traversando la Turchia orientale fino a Trebisonda sul Mar Nero. Virano verso sud-est e valicano l’attuale Armenia verso Tabriz (Iran) per poi ripiegare verso sud-est alla volta di Hormuz, l’attuale Bandar Abbas (Iran), non prima di una deviazione, solo narrativa, su Baghdad (Iraq), cuore del califfato abbaside fino al 1258 e ai tempi di Marco Polo già in decadenza. In questa prima parte del viaggio, durata circa un anno, nel racconto di Marco abbondano i riferimenti ai predoni: dai più temibili “Caraunas” alla setta dei Nizari sciiti detta “degli Assassini”. Il cammino prosegue via terra, nuovamente verso nord-est, fino alla “nobile e grandiosa” Balkh nel nord dell’odierno Afghanistan, pesantemente umiliata da Gengis Khan cinquant’anni prima. Qui Marco scopre l’esistenza dei pozzi di petrolio: “È una sorgente che anziché buttare acqua butta olio, in tanta abbondanza che se ne possono caricare cento navi alla volta. Olio non usabile come alimento ma buono per ardere”. Nel Milione si cita Samarcanda, che i Polo però non attraversano mai veramente. Il carattere magico e leggendario del libro viene proprio dall’affiancare alla diretta testimonianza di luoghi visti in prima persona la narrazione di realtà solo sfiorate e non osservate direttamente. Del tutto realistico è, invece, il racconto dell’attraversamento del Hindu Kush, del Pamir e del Karakorum, ammassi montuosi con diverse vette sopra i 7.000 metri, attraverso il Corridoio del Wakhan descritto come “il punto più alto del mondo”. Che ci siano passati davvero è testimoniato da un dettaglio fisico-chimico descritto nel Milione: Marco spiega che in queste zone è difficile cucinare perché l’acqua bolle troppo presto. Questo succede per la minore pressione atmosferica, dovuta all’alta quota. Nell’estate del 1274 i Polo sono ormai dentro i confini della Cina, nel regno di Kublai. Passano per la fortificata Tashkurgan e si dirigono a nord-est verso Kashgar, altro crocevia importante del tempo nonché centro uiguro, nell’attuale provincia cinese dello Xinjiang. Nel 1275 compiono la traversata desertica del bacino del Tarim, fino a giungere al polo buddhista di Dunhuang. Si lasciano così alle spalle i territori controllati da Kaidu Khan, cugino e antagonista di Kublai. Marco cita l’ex capitale dell’impero, Karakorum, più a nord, non visitata in prima persona. Ormai, i Polo sono nel cuore del Catai, la Cina del Nord: passando per Xuanhua, la loro spedizione, ormai scortata da messi imperiali, volge verso nord alla volta di Shangdu, la residenza estiva di Kublai. Qui comincia un altro capitolo: quello del successo di Marco e della sua permanenza alla corte sempre più sinizzata di Kublai. Per l’imperatore, Marco compierà diverse spedizioni nel sud del Paese fino in India e Indocina. Qui, a suo dire, la famiglia avrebbe accumulato ricchezze e status sociale finché nel 1291 viene concesso loro il ritorno in Europa. Nel percorso, accompagneranno una principessa mongola verso il suo sposo in Persia. Partiti da Pechino, la sede invernale di Kublai, giungono ad Hangzhou, descritta nel Milione con grande accuratezza. Seguono la via di mare verso sud, per virare poi verso ovest, attraversando lo stretto di Malacca costeggiando il subcontinente indiano fino ad Hormuz. Il ritorno ricalca l’andata fino a Trebisonda. Infine, attraversano il Mar Nero, lo stretto dei Dardanelli e l’arcipelago greco, si incuneano nel Mar Adriatico approdando a Venezia nel 1295. Ma le avventure di Marco Polo non sono ancora finite. Comandante di una galea, secondo il racconto di Giovanni Battista Ramusio, nel 1298 viene fatto prigioniero dai genovesi nella battaglia di Curzola. È a questa prigionia che dobbiamo l’incontro con Rustichello, prigioniero come lui, e il racconto memorabile del viaggio. Un viaggio da cui, a fianco di conoscenze orografiche, relative alla geografia fisica delle regioni visitate, emergono i racconti degli usi e costumi delle genti di luoghi ignoti, vero cuore dell’interesse di Polo. Kublai Khan esce da questo racconto benissimo. Marco Polo ancora meglio. Il primo emerge come un sovrano non solo ricco e potente ma anche illuminato, che mira alla costruzione di una tollerante convivenza delle grandi religioni monoteistiche, idea rivoluzionaria se si pensa che siamo alla fine dell’epoca delle Crociate. Il secondo come il più grande viaggiatore di tutti i tempi. A fugare i dubbi sui racconti di Marco Polo, in quanto visitatore dell’Estremo Oriente, del Catai (le terre a nord del Fiume giallo) e del Mangi (le terre a sud del Fiume giallo), sarebbe stata una nuova generazione di missionari: i Gesuiti.