Dopo aver strappato alla Cina il primato demografico e aver scalzato l’antico padrone coloniale britannico dal quinto posto nella classifica delle potenze economiche, l’India è diventata il primo Paese al mondo ad allunare sul polo sud della Luna. L’exploit è avvenuto due giorni dopo lo schianto del lander della Russia, la superpotenza attorno alla quale l’India orbitava durante la guerra fredda. Il sorpasso spaziale è un segno dei tempi. Per una felice coincidenza, l’India ha raggiunto Usa, Russia e Cina nel ristretto club dei Paesi sbarcati sulla Luna nei giorni in cui in Sudafrica il vertice dei Brics lanciava la sfida al sistema di governo internazionale plasmato dall’Occidente. La coincidenza non è andata sprecata: “Il successo della missione Chandrayaan-3 non riguarda solo noi. È un messaggio rivolto a tutti i Paesi fratelli del Global South. Possiamo aspirare alla Luna e oltre”, ha detto a Johannesburg il premier Narendra Modi proponendo l’India come modello da seguire, alla vigilia dell’espansione del gruppo voluta dal rivale cinese. A inizio settembre, Delhi ha confermato le sue ambizioni geopolitiche organizzando il G20 più inclusivo della storia, che ha aperto le porte all’Unione africana, avviato una riforma delle banche multilaterali e posto le basi per la ristrutturazione del debito dei Paesi emergenti. Una nuova tappa dell’ascesa del cosiddetto Sud Globale, che potrebbe trovare nei Brics in espansione il suo principale veicolo politico. I dubbi però non mancano. Al club formato da Brasile, Cina, India, Russia e Sudafrica si sono uniti nel 2024 Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia e Iran. I membri sono stati scelti tra oltre quaranta candidati, a testimonianza dell’innegabile forza d’attrazione del gruppo, confortata da dati economici che ne illustrano l’ascesa e alimentata dalla sfiducia nei confronti di istituzioni internazionali superate dai tempi. Negli ultimi vent’anni, i Brics hanno quasi triplicato la loro quota del Pil nominale globale, passando dall’8,9% del 2003 al 26% del 2022, percentuale che sale a 31,6 se misuriamo il Pil in termini di parità di potere d’acquisto. Adottando questo criterio il blocco avrebbe sorpassato nel 2020 il G7, il cui peso economico è sceso al 30,4%. Con i nuovi membri, i Brics Plus “rappresenteranno il 36% del Pil mondiale”, ha fatto i conti il presidente brasiliano Lula alla fine del vertice, annunciando altri ingressi destinati ad allargare il distacco. In termini nominali, però, il sorpasso è ancora lontano: nel 2022 il Pil combinato dei G7 era di circa 45 mila miliardi di dollari, quello dei Brics 26 mila miliardi. E rimane ampio il divario del Pil pro-capite, con una media dei Brics pari a 9.265 dollari contro una media dei Paesi G7 di 47.958. I dati aggregati nascondono inoltre forti squilibri interni. I Brics originari sono cresciuti in modo impetuoso nel primo decennio del nuovo millennio (Cina +176%; India 110%; Russia 60%; Brasile 47%; Sudafrica 41%) ma nel secondo decennio il rallentamento degli ultimi tre è stato ugualmente vistoso. E il divario con le locomotive asiatiche si è allargato. Sebbene la Cina sia a sua volta alle prese con una crisi economica, il suo Pil oggi è superiore a quello di tutti gli altri combinati e circa cinquanta volte più grande di quello sudafricano. Tiene il ritmo, anzi riduce il distacco, solo l’India con il 7% di crescita prevista nel 2023, la più alta tra le grandi potenze. I dubbi sulla compattezza del blocco sono ancora più forti sul piano geopolitico, dopo l’ingresso dei nuovi membri. Nel gruppo entrano gli arcirivali africani Egitto ed Etiopia e quelli mediorientali Arabia Saudita e Iran. Soprattutto, sembra destinata ad acuirsi la competizione tra i Paesi leader, Cina e India, portatori di visioni diverse sul futuro dei Brics e degli interessi del Sud Globale. Dopo aver legato a sé i Paesi emergenti con i dividendi offerti dalla Nuova Via della Seta, dal 2021 Pechino ha risposto alla crescente conflittualità con gli Usa investendo anche sull’alleanza politica con i partner del Sud. L’allargamento del Brics, come le “Iniziative Globali” all’Onu, rientra in questo progetto, condiviso da Russia e Iran, ma avversato dall’India e da altri nuovi membri più vicini agli Usa, come l’Arabia Saudita. La Cina a parole si fa promotore di un “vero multilateralismo” ma, per sfidare “l’egemonia Usa”, punta a trasformare i Brics Plus in un contraltare politico del G7. La sua visione tende ad approfondire la rinascente spaccatura bipolare del globo. Per Delhi invece la missione primaria dei Brics Plus è il rafforzamento delle partnership economiche a sud, con potenziali ricadute geopolitiche, ma distinte da quelle cinesi. Sul piano economico, Pechino punta a proteggere le sue posizioni, insidiate dalla volontà degli Stati Uniti di allentare l’interdipendenza con la Cina (decoupling) o perlomeno di ridurne i rischi (de-risking), provando a sostituire nei settori più delicati gli attori cinesi con quelli di Paesi politicamente più affini (friendshoring). Tra questi spicca l’India che anche al vertice dei Brics ha reclamizzato la sua affidabilità come partner nelle filiere produttive globali. Delhi predica e pratica il non allineamento, rafforzando i rapporti con gli Usa per cogliere le opportunità derivanti dallo scontro con la Cina senza allentare quelli con la Russia che le fornisce energia a buon mercato. L’India promuove i suoi interessi, ma propone un modello attraente per molti Paesi in via di sviluppo, sottoposti alle contrapposte pressioni delle due superpotenze. Per quanto diversi, entrambi i progetti traggono forza dal declino di un sistema di governanceglobale anacronistico. L’acronimo Brics, del resto, non nasce in un laboratorio geopolitico antagonista. È coniato dal Chief economist della Goldman Sachs Jim O’Neill, che in un paper pubblicato nell’autunno 2001 chiese di integrare le potenze emergenti nel sistema economico internazionale. L’obiettivo primario era di promuovere nuovi investimenti ma, per rendere i meccanismi decisionali della globalizzazione più efficaci, O’Neill sottolineava la necessità di allargarne la cabina di regia, facendo entrare tutti i Brics nell’allora G8, e di riformare le istituzioni finanziarie nate all’indomani della seconda guerra mondiale. Poco o nulla è cambiato da allora. Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (Fmi) continuano a essere affidati la prima a un presidente statunitense e il secondo a un direttore europeo. Inoltre, il peso del voto di ogni Paese ignora tuttora la demografia tenendo conto solo del Pil, senza peraltro riflettere la crescita economica dei Brics: al Fmi la quota dei loro voti è ferma al 15%. Washington ha quindi un potere di veto effettivo e lo usa, secondo i Paesi emergenti, per promuovere politiche spesso contrarie ai loro interessi. Contrasto che è risultato evidente nella gestione della crisi innescata dalla pandemia e aggravata dalla guerra europea. Non è un caso che l’unico progetto ambizioso lanciato fin qui dai Brics sia la New Development Bank, fondata nel 2014 con l’obiettivo di cambiare le regole di finanziamento dello sviluppo. I risultati sono stati però deludenti anche perché, pur volendo sottrarsi alle decisioni di un’istituzione dominata dagli Usa, la banca continua a usare il dollaro come moneta di riferimento. Più dei format geopolitici è il persistente predominio del dollaro nel sistema economico internazionale a ostacolare una ridistribuzione effettiva del potere globale, lasciando i Paesi esposti alle decisioni della Federal Reserve Bank e della Casa Bianca. La crisi in corso, però, potrebbe accelerare il cambiamento. L’adozione sempre più diffusa delle sanzioni finanziarie da parte degli Stati Uniti incentiva una parziale “de-dollarizzazione” dell’economia mondiale. L’ipotesi di una moneta dei Brics è stata ventilata alla vigilia del vertice, ma i cambiamenti avvengono sul campo, in risposta a esigenze concrete. Prima tra tutte quella della Russia che, in cerca di una moneta alternativa per le sue transazioni internazionali, ha optato per lo yuan cinese. L’utilizzo della moneta di Pechino in sostituzione del dollaro si diffonde anche altrove, in primo luogo sui mercati energetici. L’Arabia Saudita ha aperto a pagamenti in yuan, gli Emirati Arabi Uniti anche alle rupie indiane. E perfino nelle Americhe, mentre l’Argentina di recente ha ripagato parte del suo debito con il Fmi in yuan, il Brasile ormai compra i prodotti cinesi usando la sua moneta (il real) e accetta pagamenti in yuan. La moneta cinese non è in condizione di scalzare il dollaro come moneta di riferimento, sia chiaro. La strada che si sta aprendo è piuttosto quella di una frammentazione del sistema monetario internazionale (e di un ritorno dell’oro), propizia sulla carta all’affermarsi di un ordine multipolare e più aderente agli spostamenti degli equilibri di potere tra le grandi regioni del mondo.