Chi era stato a offrirgli quel vino così buono? Voleva proprio saperlo, Polifemo, ormai alticcio. “Il mio nome è Nessuno. E Nessuno mi chiama mia madre, e mio padre, e così mi chiamano i compagni”. La risposta di Ulisse, nel canto IX dell’Odissea, è diventata proverbiale. “Il mio nome è Nessuno” (“Οὖτις ἐμοί γ’ὄνομα” nell’originale greco) è rimasto nei secoli come motto icastico e potente, tanto da essere preso anche come titolo di un film western (il genere che incarna l’unica forma moderna dell’epica, secondo l’acuta osservazione dello scrittore argentino Jorge Luis Borges). Ora, ci si potrebbe aspettare che la civiltà greca, così a suo agio con i giochi logici sul termine nessuno (οὖτις, outis), avesse dimestichezza con il concetto di zero. Paradossalmente, invece, ne era lontanissima: i greci dell’epoca omerica non lo contemplavano proprio. Perciò se Polifemo avesse ribattuto qualcosa come: “Va bene, Nessuno, ma quante persone siete?”, avrebbe messo in difficoltà l’astuto Ulisse. E chissà come se la sarebbe cavata. Sembra incredibile che i greci del periodo preclassico e classico, con personaggi come Talete, Pitagora e la sua cerchia, Eudosso e Platone, abbiano sviluppato una matematica avanzata senza un concetto così importante. Lo si può capire un po’ di più considerando che il loro approccio era soprattutto geometrico. In effetti, poi, bisogna dire che in realtà all’epoca lo zero non lo conosceva nessuno. La sua storia è lunga e complicata, tanto da essere oggetto di innumerevoli ricerche e numerosi libri (fra cui, negli ultimi tempi, quelli degli studiosi americani Robert Kaplan e Charles Seife). Lo storico della scienza Lucio Russo, nella sua monumentale opera La rivoluzione dimenticata, sostiene che l’unica vera rivoluzione scientifica avvenne in età ellenistica (che – attenzione – si sviluppò molto tempo dopo l’epoca classica dell’antica Grecia e parecchi secoli dopo la composizione dell’Odissea). Da lì, tramite il mondo arabo, si trasmise poi al Rinascimento italiano, fino a Galileo: la rivoluzione scientifica moderna non sarebbe altro che una riscoperta di quella antica. Secondo Russo, anche lo zero avrebbe seguito un percorso analogo: i matematici greci dell’epoca ellenistica impararono la sua utilità pratica dai babilonesi, senza arrivare a metterlo sullo stesso piano ontologico degli altri numeri ma trattandolo un po’ come un trucchetto per fare i calcoli in modo più comodo. E furono proprio loro i primi a usare il simbolo da cui deriva quello ancora oggi in uso in tutto il mondo: ο (la lettera omicron), forse perché era l’iniziale della parola οὐδἐν (oudén, uno dei modi per dire “niente”, un termine imparentato naturalmente con οὖτις). Ecco dunque un altro paradosso: i greci non concepivano lo zero come numero ma sono stati loro a lasciarci il simbolo per denotarlo. Forse a posteriori non è stata una grande idea, se si pensa alla frequente confusione fra la lettera o e il simbolo 0. Era però una scelta coerente visto che i greci, proprio come i romani, come simboli per i numeri usavano le lettere dell’alfabeto. Secondo Russo, gli ellenisti introdussero lo zero in India in seguito alle conquiste orientali di Alessandro Magno. Invece, secondo altri studiosi, l’influsso sarebbe avvenuto nella direzione contraria. Quello che è abbastanza accertato è che furono gli indiani i primi ad attribuire allo zero lo status di numero: un primato assoluto e soprattutto una conquista intellettuale epocale. In Occidente, a partire dall’epoca romana, il sapere matematico (almeno per quanto riguarda lo studio astratto) si prese una lunga pausa di riposo e anche lo zero fu a lungo dimenticato. Nel frattempo, invece, le conoscenze indiane ebbero una grande fioritura e furono assimilate dagli arabi. Il termine sanscrito per lo zero, śūnya, il cui primo significato era nulla, vuoto, fu tradotto in arabo con ṣifr (un termine che, per vie traverse e con un cambiamento di significato, è all’origine anche della parola italiana cifra) che in origine voleva dire appunto niente. Ancora oggi, in molte lingue dell’Asia e dell’Africa, la parola zero viene dall’etimologia araba: sıfır in turco e in azero, sifir in curdo, сифр (sifr) in tagiko, sifuri in swahili. Le cose cambiarono all’arrivo in Europa. Alla fine del XII secolo il matematico italiano Leonardo Pisano, detto Fibonacci, trascorse molti anni della sua gioventù nella località di Bugia, nell’attuale Algeria. Lì imparò la comodità del sistema di numerazione arabo (ancora oggi le cifre si chiamano arabe) e l’uso dello zero: fu lui il primo a diffondere su larga scala queste conoscenze nel mondo cristiano. Nel Liber Abbaci (pubblicato nel 1202) Fibonacci diede una sterzata definitiva non solo alla matematica occidentale ma anche alla sua nomenclatura: non usò il termine arabo tale e quale, come fecero per esempio i turchi, né decise di tradurlo a sua volta in latino con nihil (niente), bensì adottò una sorta di calco fonetico. La parola latina che usò Fibonacci è zephyrum (zefiro, il vento dell’ovest): un termine di origine greca (Ζέφυρος) che forse alle sue orecchie sembrava approssimare l’arabo ṣifr. Una volta approdata sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, la parola si è diffusa rapidamente in italiano come zefiro, che nella variante veneziana è diventata zevero e poi, per contrazione, zero. Così, anche se l’origine del nome è araba, la singolarità della zeta iniziale (una lettera poco usata in latino) viene dal greco. Qui c’è il paradosso forse più divertente, anche se del tutto casuale: lo zero, che dal punto di vista numerico è all’inizio della successione dei numeri naturali, si trova all’ultimissimo posto secondo un altro criterio che tutti conoscono bene: l’ordine alfabetico. Dall’italiano la parola zero è passata in tutte le altre lingue neolatine: zero in portoghese, romeno e catalano, cero in spagnolo e galiziano, zéro in francese. Uguali o comunque simili le versioni nei dialetti italiani, considerati spesso dai linguisti come lingue a sé: zero in napoletano, in sardo e in friulano, zeru in siciliano, in corso, in piemontese e in lombardo. Anche altre lingue hanno adottato l’etimologia di origine italiana (fra cui l’inglese che, pur essendo di origine germanica, dopo l’invasione normanna del 1066 prese l’abitudine di importare numerose parole francesi): si dice zero per esempio in albanese, polacco e basco. Perfino il latino – la lingua in cui, fino al Settecento e anche oltre, erano scritti quasi tutti i trattati scientifici – ha coniato il termine un po’ incongruo di zerus. Al contrario, nella maggior parte delle lingue germaniche, slave, ugrofinniche e baltiche, lo zero viene dal latino nullus (nessuno): per esempio nul in olandese, in danese e in afrikaans, Null in tedesco, нуль (nul) in russo, in bielorusso e in ucraino, нула (nula) in serbo, in bulgaro e in macedone, noll in svedese, nolla in finlandese, null in norvegese e in estone, nula in ceco, in slovacco e in croato, nulla in ungherese, nulle in lettone, núll in islandese, nulis in lituano. Così anche in molte lingue – indoeuropee e non – influenzate dal russo: per esempio нуль (nul) in tataro, ноль (nol) in kazako e in uzbeko, аноль (anol) in abcaso, нуул (nuul) in yacuto. Addirittura, l’esperanto, la lingua artificiale inventata alla fine dell’Ottocento dal polacco Ludwik Lejzer Zamenhof sulla base soprattutto di alcune lingue indoeuropee (italiano, francese, tedesco, inglese, russo e polacco), ha seguito questa etimologia chiamando lo zero nulo. Fra le pochissime eccezioni lo sloveno, che usa il termine nìč (niente). Insomma, siamo di fronte a un ennesimo paradosso: per indicare lo zero la maggior parte delle lingue europee usa una parola di origine latina, tranne le lingue neolatine!