Vite da scienziate – Rita Levi Montalcini: il coraggio della propria intelligenza

“Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare e non temete niente. Non temete le difficoltà, io ne ho passate molte e le ho attraversate senza paura”. (Rita Levi Montalcini)

 

Eppure, chissà quanta paura e malinconia doveva avere quando il 30 settembre 1947 giunse a New York dopo un viaggio di 12 giorni e 12 notti e “l’acqua che aumentava sempre la nostra distanza (con la madre e la sorella Paola) mi metteva un grosso nodo in gola.”

Rita nasce il 22 aprile 1909 a Torino, in una famiglia benestante di stampo vittoriano nella quale al padre spettavano le decisioni, mentre la madre e i figli contavano poco. La serietà dello sguardo, l’imperiosità della voce e i brevi scatti di collera nel comportamento paterno, che contrastavano con la dolcezza materna, erano la prova del diverso ruolo del padre e della madre, cosa che le è chiara già all’età di due o tre anni. Probabilmente per questo adora la madre ma teme il padre, con cui non è capace di instaurare un rapporto d’affetto, sebbene dopo la morte di lui riuscirà a far pace con il suo ruolo e gli sarà grata per quanto fatto. Lei stessa dice di avere ereditato dal padre una notevole tenacia nel perseguire la strada che riteneva giusta, non curandosi delle difficoltà che avrebbe incontrato nella realizzazione dei propri progetti.

Oltre ai genitori, la famiglia di Rita è composta da quattro figli: il maggiore, Gino, ha una forte personalità artistica, che gli fa scegliere architettura come compromesso tra la passione per la scultura, non approvata dal padre, e gli studi di ingegneria, sognati dal padre. La secondogenita Anna, detta Nina, ha una vena letteraria, ma il matrimonio e il succedersi delle gravidanze, in quell’epoca, la costringono a rinunciare al suo sogno di diventare una scrittrice come l’adorata Selma Lagerloff. Infine, Paola, gemella eterozigote di Rita, con cui ha un legame così forte e intenso da creare, soprattutto da bambine, una barriera verso gli altri. Rita affronta le sue paure fin dall’infanzia, quando è disturbata dal timore degli adulti in generale e del padre in particolare, dalla paura che il buio nasconda mostri e dai giocattoli a molla, angosce che lei stessa da adulta fa risalire ad un’estrema timidezza e sfiducia in sé stessa.

Che grande donna è riuscita a diventare e quanto è arrivata lontano superando le proprie paure! Anche in un ambiente maschilista come l’Italia di inizio Novecento!

 

La famiglia di Rita Levi Montalcini (Rita è in basso a destra con la gemella)

Anche dopo l’era vittoriana, persistevano forti discriminazioni di genere nell’educazione, così Rita è obbligata a frequentare, dopo le scuole medie, il liceo femminile, che non dava accesso all’università. Il padre prende questa decisione per le tre figlie femmine, anche vista l’esperienza fatta da due delle sue sorelle, laureate in lettere e matematica (cosa molto rara per l’epoca), che poi non riuscirono a conciliare gli studi con gli impegni familiari. Le sorelle Nina e Paola soffrono meno questa imposizione, perché in loro è forte il talento artistico che non necessitava l’università, ma Rita, finito il liceo, si sente persa, senza capire quali sono i suoi talenti. È un tragico evento a segnare per sempre il suo destino: la grave malattia che colpisce improvvisamente Giovanna, la signora che aiuta la madre in casa e che Rita ama molto, le fa capire che vuole intraprendere la carriera di medico.

Suo padre ritiene che questa strada non sia adatta ai doveri di una donna come madre e moglie, ma Rita riesce ad imporre la sua volontà, affermando tra l’altro che non si sarebbe mai sposata. Poiché ha finito gli studi da tre anni e deve recuperare alcune materie non svolte nel liceo femminile, deve studiare per otto mesi alacremente ma, grazie ad una grande dedizione e determinazione, riesce a superare l’esame di ammissione e nell’autunno del 1930, all’età di 21 anni, fa l’ingresso per la prima volta nella facoltà di medicina di Torino. Rita e la cugina Eugenia sono le uniche donne del loro corso e gli anni a medicina non sono sempre facili, ma sono le fondamenta per il futuro lavoro di ricercatrice (l’esperienza acquisita nello studio dei tessuti in vitro le avrebbe, vent’anni dopo, suggerito di ricorrere a questa tecnica per scoprire la natura del fattore di crescita dei nervi) e gettano le basi di grandi rapporti di amicizia e stima come quello con il professor Levi e quello con il compagno di corso Renato Dulbecco. Si laurea a pieni voti nel 1936, subito dopo la laurea diventa assistente del professor Levi e inizia la specializzazione in neurologia e psichiatria. Purtroppo poco dopo scopre cosa vuol dire essere ebrea. Fino a quel momento, infatti, la religione non aveva mai influenzato la sua vita (la sua famiglia non era ebrea praticante, Rita non era mai andata in sinagoga e suo padre le aveva insegnato a rispondere fin da bambina, a chi le chiedeva di che religione fosse, che “era una libera pensatrice”).

Dal 1938 con le leggi razziali le viene impedita sia l’attività di ricerca che di medico. Decide così di esercitare la professione in forma clandestina, curando la povera gente che abitava nelle soffitte della vecchia Torino, incurante delle leggi e felice del suo aiuto. L’impossibilità di usare il ricettario la costringe tuttavia ad abbandonare questa attività.

Nel marzo 1939 lascia l’Italia per il Belgio dove Léon Laruelle l’aveva invitata a proseguire le sue ricerche di neurologia; a fine agosto lascia il Belgio per seguire un convegno a Copenaghen, ma il 12 settembre arriva la notizia dell’invasione della Polonia da parte della Germania e riesce a rientrare a Bruxelles con una delle ultime navi in servizio per i civili. A dicembre rientra in Italia con la sorella Nina che si era rifugiata in Belgio con la famiglia. Seppur scoraggiata da questi avvenimenti, non si perde d’animo e decide di trasformare la sua camera in laboratorio per analizzare alcuni aspetti del sistema nervoso in via di sviluppo negli embrioni di pollo, sulla base di un articolo scritto dal professor Victor Hamburger. “Sistemai il tavolo con la cassetta nella quale operavo gli embrioni. Tra il tavolo operatorio e il letto, su due altri tavoli disposi il microtomo e il microscopio Zeiss per lo studio istologico delle sezioni di embrioni fissati e colorati. Lo stesso microscopio era corredato di una camera lucida, che mi permetteva di disegnare le sezioni di embrioni operati, e di un altro apparato Zeiss per microfotografia. Addossata alla parete opposta a quella occupata dal letto, avevo collocato l’incubatrice e il termostato per l’inclusione in paraffina”. Hamburger aveva osservato che la crescita delle fibre nervose destinate a innervare gli arti si riduceva sensibilmente quando nell’embrione gli arti venivano eliminati, secondo lui perché nell’eliminazione delle zampe veniva a mancare un fattore induttivo il cui compito era favorire la crescita delle cellule nervose.

Nell’estate del 1941 il professor Levi si associa alle ricerche di Rita Levi Montalcini, che tra l’inverno e la primavera del 1942 scopre che le fibre nervose si differenziano e crescono normalmente negli embrioni in cui vengono eliminate le gemme che avrebbero dato origine agli arti, ma non appena raggiungono il moncone dell’arto amputato cominciano a degenerare fino a morire. Deduce, quindi, che eliminare gli arti forse non significa togliere un fattore induttivo, come ipotizzato da Hamburger, ma un fattore “trofico”, ossia capace di favorire la crescita delle fibre nervose.

Il 10 settembre 1943 la città di Torino cade nelle mani dei tedeschi e per la famiglia Montalcini è troppo pericoloso rimanere. Così inizialmente tentano la fuga in Svizzera, ma senza successo, e poi provano a dirigersi verso sud arrivando a Firenze l’8 ottobre. Il 2 settembre 1944 Firenze viene liberata dagli inglesi e Rita decide di dedicarsi come medico a curare i feriti che arrivavano dal Nord Italia ancora in mano ai nazisti. In questa occasione capisce che le manca il distacco che permette ad un medico di far fronte alle sofferenze dei malati senza un coinvolgimento emotivo. Fortunatamente nel 1947 viene invitata a St Louis da Victor Hamburger che aveva letto la sua pubblicazione uscita nella rivista belga «Archive de Biologie». Incuriosito dalle conclusioni di Rita, che erano completamente diverse dalle sue, chiedeva a Levi di farla andare per un semestre a St. Louis per continuare a studiare insieme a lui quel problema.

In realtà quello che doveva essere un semestre negli Stati Uniti si trasforma in una permanenza decennale, la ricerca con Hamburger si concentra sui gangli spinali, anziché sui neuroni che controllano il movimento, per vedere se esiste qualcosa in grado di indurre la crescita delle fibre nervose, come aveva sostenuto Rita fin dal suo articolo del 1943. Gli esperimenti continuano fino all’inizio del 1951 quando danno conferma dell’ipotesi della ricercatrice, nonostante andasse contro l’idea dominante allora nel mondo scientifico che considerava lo sviluppo del sistema nervoso come rigidamente programmato dai geni. Qui si pone uno degli insegnamenti più importanti di questa grande scienziata: “Quanto ho raggiunto al di là di ogni speranza è stato grazie all’intuito e dall’andare contro corrente, non credere a quello che c’era scritto nei libri sul sistema nervoso, capire quello che altri non capivano e vedere quello che gli altri non vedevano.”

La proteina in grado di indurre la crescita delle fibre nervose viene chiamata NGF, Nerve Growth Factor e la porterà a vincere il premio Nobel nel 1986.

 

Rita Levi Montalcini nel suo laboratorio

Nel 1958 viene nominata professoressa ordinaria di zoologia presso la Washington University di Saint Louis dove rimane fino al suo pensionamento nel 1977. La scoperta della NGF aveva scosso un dogma scientifico, perché indicava che lo sviluppo delle cellule nervose non era programmato geneticamente, ma poteva essere guidato da fattori esterni: la portata di tutto questo era enorme e Rita decide nel 1961 di fondare un’unità di ricerca a Roma. Vive, quindi, gli ultimi anni della sua vita nella capitale con la sorella Paola, dividendosi tra il laboratorio italiano e quello americano.

La sua vita di ricerca e l’amore totale verso il suo lavoro continuano senza sosta: dal 1961 al 1969 dirige il Centro di Ricerche di neurobiologia presso l’Istituto Superiore di Sanità, dal 1969 al 1979 riveste la carica di Direttrice del Laboratorio di biologia cellulare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e prosegue i suoi studi come Guest professor dal 1979 al 1989. Anche dopo aver raggiunto i “limiti d’età” non si ferma, anzi, si dedica con maggior passione a temi sociali che le stavano a cuore, per esempio nel 1983 è chiamata a ricoprire la posizione di presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, in quanto esperta di questa patologia. E’ l’inizio di un impegno che per molti anni l’avrebbe vista in prima linea sia nella ricerca che nella campagna di diagnosi precoce, che nell’assistenza alle persone e famiglie colpite da tale malattia, che definiva “una delle malattie più inquietanti della nostra epoca”.

Dal 1993 al 1998 è presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e prima donna a far parte della Pontificia accademia delle scienze. A partire dal 1999 è ambasciatrice dell’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). Rita Levi Montalcini non si è mai tirata indietro neppure sui temi OGM e sulle cellule staminali che, secondo lei, aprivano scenari importanti per possibili terapie. Diceva che non si poteva mettere un lucchetto alla scienza, che vi erano pericoli, ma che la scienza doveva procedere, seppure con l’obbligo di un controllo sull’uso e sulle modalità di applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche. La scienza le aveva dato molto più di quanto avesse potuto sperare.

Cosa possiamo imparare allora dalla vita così intensa e apparentemente perfetta di questa immensa scienziata, unico premio Nobel femminile italiano?

Innanzitutto, che lei non si considerava e non amava la perfezione, anzi l’imperfezione, diceva: “E’ più consona alla natura umana e questo non è un male, perché un essere perfetto non è migliorabile. L’imperfezione può essere uno stimolo per la nostra mente, per portarci a rendere migliore tutto ciò che è migliorabile, ma questo è possibile solo se siamo in grado di osservare la realtà e chiederci il perché delle cose”.

In secondo luogo, ci mostra cosa significa l’amore totale verso il proprio lavoro senza desiderare il successo, ma per totale dedizione agli altri. Non era riuscita ad esercitare il lavoro di medico perché troppo coinvolta emotivamente coi pazienti e questa empatia verso il prossimo le avrebbe permesso di continuare ad amare il suo lavoro fino alla fine perché fonte di speranza di guarigione per molti. Quando parlava della sua meravigliosa molecola, in qualunque intervista, trasmetteva un entusiasmo trascinante perché capiva la portata della scoperta, ancora oggi in fase di sviluppo. Alcuni fattori di crescita sono diventati farmaci garantendo la sopravvivenza a moltissime persone, come l’eritropoietina che stimola la crescita dei globuli rossi per curare forme di anemia o il G-CSF, fattore di crescita dei granulociti, utilizzato per stimolare la produzione di globuli bianchi e il collirio cenegermin (nome commerciale Oxervate) per trattare la cheratite neurotrofica, una grave e rara malattia corneale che era priva di terapia.

In terzo luogo, insegna che ogni donna, così come ogni persona, deve seguire i propri desideri e le proprie aspirazioni anche se non sono quelli che gli altri si aspettano: non dobbiamo essere tutti uguali, avere tutti le stesse ambizioni. Il messaggio che voleva lasciare, soprattutto ai giovani, è di utilizzare il proprio tempo per seguire ciò che ci appassiona e scegliere il lavoro che ci sembra più adatto a noi, almeno nel momento presente.

Ma soprattutto ci insegna l’importanza di trovare un senso nella vita: il suo era la dedizione e l’amore verso gli altri e lo dimostra anche quando a novantatré anni realizza il suo sogno di creare la Fondazione per l’Africa. “Non ero nata per fare la scienziata, ma per andare in Africa ad aiutare chi ha bisogno e nell’ultima tappa della mia vita esaudisco questo desiderio”. L’obiettivo della Fondazione era dare una possibilità alle giovani donne del continente africano di avere istruzione, dovere, secondo lei, dell’intero pianeta.

Il modo migliore per ricordare Rita Levi Montalcini come grande scienziata, grande donna e grande anima, forse, è con due frasi che la riassumono: “Ricevere il premio Nobel è stato piacevole, ma mai come la scoperta” e “la mia vita è tanto lunga e piena di splendide cose, ma quello che importa sono i valori”.

 

Rita Levi Montalcini mentre riceve il premio Nobel per la medicina dal re Carlo Gustavo di Svezia, a Stoccolma, il 10 dicembre 1986 (credit Ansa)

 

BIBLIOGRAFIA

Rita Levi Montalcini, Elogio dell’imperfezione, Baldini – Castoldi, Milano, 2024.

Piera Levi Montalcini, Alberto Cappio, Nicoletta Bortolotti, Un sogno al microscopio. Il viaggio verso il Nobel di Rita Levi-Montalcini, Mondadori, Milano, 2022.

Enrica Battifoglia, Rita Levi Montalcini L’irresistibile fascino del cervello, Hoepli, Milano, 2018.

RaiPlay – intervista con Enzo Biagi

Articoli

Cheratite neurotrofica, l’incredibile storia del collirio che ‘ripara’ la cornea – Osservatorio Malattie Rare

https://www.fanpage.it/innovazione/scienze/la-nipote-di-rita-levi-montalcini-non-tutte-diventiamo-madri-lei-ha-scelto-chi-voleva-essere/

 

 

 

4 risposte

  1. La lettura di queste biografie è davvero piacevole e scivola come un bel racconto che parla di donne scienziate che hanno fatto ricerca ma hanno anche vissuto, viaggiato, amato…
    Si capisce che queste storie escono da una penna femminile che scrive senza essere indulgente ma nemmeno giudicante.
    Insomma storie di scienza e di donne vere, che ci fanno sentire orgogliose di essere donne!

  2. Anna nasce nel 1909, mentalmente inquadri un periodo storico lontano, poi, proseguendo nella lettura, ci si accorge che gli insegnamenti che emergono sono estremamente attuali, tanto, da prenderne nota, così da poterli condividere con i propri figli.
    Complimenti alla Dottoressa Silvia Gambarini.

  3. Davvero interessante seguire l’evoluzione di queste pubblicazioni, che riescono a stimolare curiosità ed interesse a tutti i livelli. La facilità di lettura e la scorrevolezza ne fanno un tratto distintivo. Grazie

  4. Un’altra accurata ed appassionante biografia di una icona della scienza e dell’emancipazione femminile.
    Grazie per avere ancora una volta dedicato spazio ad una straordinaria donna e scienziata.

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