Uno dei risultati più celebri della matematica è il “teorema di Fermat”: per oltre tre secoli, questo teorema è rimasto una congettura e la sua dimostrazione, ottenuta per la prima volta da Andrew Wiles nel 1994, ha comportato l’utilizzo di tecniche letteralmente fantascientifiche di teoria dei numeri. La storia del teorema di Fermat è stata scritta molte volte e non lo rifaremo. Quello che ci interessa sottolineare qui è quanto sia riduttivo considerare Pierre de Fermat un commentatore di Diofanto, per quanto geniale, il cui maggiore contributo sarebbe la frase in cui dichiara di possedere una dimostrazione per un risultato che ha richiesto tre secoli e tecniche inimmaginabili all’epoca per essere dimostrato. Al tempo di Fermat, nella prima metà del Seicento, la matematica era in piena rinascita e la Francia era il crocevia principale di questo fermento scientifico: François Viète, vissuto nella seconda metà del Cinquecento, aveva sviluppato i contributi dell’algebra italiana rinascimentale; Cartesio aveva gettato nuova luce sulla geometria e mostrato come i greci avessero lasciato enigmi tutt’altro che insolubili; Pascal, in poche e geniali opere, aveva introdotto nuove idee nella geometria e nella probabilità (una disciplina risvegliata dall’italiano Gerolamo Cardano, sempre nel ‘500) e padre Marin Mersenne intesseva una rete di contatti fra i ricercatori di tutta Europa, tanto che potremmo paragonarlo alle risorse che oggi sono disponibili su Internet per i matematici, come i siti arxiv.org o mathoverflow.net. Ma, a dispetto di tutto ciò, i matematici come li intendiamo oggi ancora non esistevano! Nessuna delle persone appena citate si sarebbe definita un matematico toutcourt, anche perché la professione del matematico era ancora di là da venire. Viète, come Fermat, era un uomo politico e Cartesio viveva di rendita e aveva in mente la filosofia e le scienze naturali. Pascal, piuttosto, si sarebbe considerato un teologo e Mersenne, oltre ad attendere agli uffici religiosi, si interessava di teologia e musica. Questo, però, non impedì ai pensatori citati di gettare nuove e talvolta rivoluzionarie basi per la matematica moderna: Fermat, oltre all’aver riesumato la teoria dei numeri dalle opere di Diofanto e avervi contribuito con nuove idee, condivide con Cartesio la scoperta della geometria analitica e anticipa il calcolo differenziale, come Leibniz gli riconoscerà, e persino il calcolo variazionale, come non sfuggirà a Lagrange. Appare quindi piuttosto grottesca l’etichetta di “principe dei dilettanti” affibbiata a Fermat in un celebre e troppo fantasioso libro di storia della matematica inspiegabilmente ancora ristampato, I grandi matematici di Eric Temple Bell. A quell’epoca, tutti i matematici erano dilettanti! Il termine va ovviamente inteso alla lettera, nell’accezione di chi per puro svago svolge una attività per la quale non è remunerato: siamo veramente sicuri che la matematica fosse l’analogo di quel che per molti oggi sono il padel, la playstation o le serie in streaming? Puro svago? Sicuramente il diletto è una parte fondamentale delle attività creative: matematici, musicisti, scrittori, pittori e via discorrendo svolgono professioni che procurano loro un intenso piacere intellettuale che, ora come allora, è una molla fondamentale per le attività matematiche. Ma oggi non è l’unica. Un matematico professionista deve pubblicare continuamente articoli scientifici ed è interessato alla carriera e ai concorsi. Insomma, condivide molti aspetti della vita di un professionista di un qualsiasi settore. Al tempo di Fermat queste esigenze non c’erano e tuttavia non basta il diletto a spiegare i carteggi al vetriolo, le polemiche infinite, le sfide e le canzonature, insomma tutta una serie di comportamenti che si evincono dagli scambi epistolari e la cui veemenza sembra contrastare con il dolce ozio e con il diletto che eleva gli animi e lo spirito. Oltre al diletto c’è almeno un’altra parola chiave, altrettanto ambigua, da tenere in conto: “vanità”. Oggi è un tratto caratteriale considerato negativo: ci fa pensare a chi vuole apparire piuttosto che essere e a chi fa di tutto per attribuire al proprio operato o alle proprie opinioni una preponderanza rispetto a quelle degli altri. Proprio queste caratteristiche possono spiegare perché Fermat e i suoi contemporanei non solo facevano della matematica ma volevano comunicarla ad altri. Se ci si ferma al puro diletto, perché si dovrebbero intrattenere fitte corrispondenze nelle quali si parteggia per qualcuno in una disputa o nelle quali ci si lancia in acerrime discussioni al limite dell’insulto magari sul miglior metodo risolutivo di un certo problema geometrico? La vanità è anche un attributo che l’epoca di Fermat, quella barocca, merita a pieno titolo: nei quadri, nelle sculture, nelle chiese e nei palazzi, dominano ossa, teschi, tombe, clessidre, libri e strumenti di lavoro ormai abbandonati. Gli elementi che nell’arte dell’epoca costituivano le vanitas, composizioni che dovrebbero suggerire la caducità dell’esistenza e l’infinita vanità del tutto. E che cosa resta, scomparsi i protagonisti delle liti e delle dispute, dimenticate le loro lettere e le loro parole, dell’opera di questi matematici se non le loro formule e i loro teoremi, in tutto e per tutto analoghi alle clessidre e ai libri delle vanitas barocche che noi ancora oggi possiamo studiare e cercare magari di arricchire, si intende, per puro diletto e vanità?