Perché la storia della matematica ci appassiona

Alfred Lotka, Vito Volterra e Lewis Richardson sono solo alcuni dei nomi che hanno fatto la storia della matematica e che sono comparsi su queste pagine di recente. Con loro anche Leibniz, Blaise Pascal, Lucio Lombardo Radice, Gustavo Colonnetti, Francesco Paolo Cantelli. Senza dimenticare il mistero dei numeri primi e dell’ipotesi di Riemann. La storia della matematica è un tema che ci appassiona. E per diverse ragioni. PERCHÉ mostra che nei secoli e nei decenni passati la matematica si è realizzata come creazione di donne e uomini – certo, più i secondi delle prime ma anche in questo campo le donne sono in forte rimonta – che sono state persone come le altre, con i loro pregi e i loro difetti, le passioni e le manie, gli errori, le polemiche e anche qualche escamotage per mettersi maggiormente in mostra. Qualcuno dotato di un’intelligenza e di un intuito incredibili e sorprendenti. La storia, praticata con spirito critico, aiuta a togliere sacralità all’attività matematica. Il passato non può essere trasportato meccanicamente nel presente ma il suo studio può perlomeno insinuare il dubbio che anche oggi i matematici non siano gli irreprensibili sacerdoti di una nuova religione. Sono, per molti aspetti, persone normali che non si risparmiano e applicano la loro intelligenza per fare avanzare la frontiera delle conoscenze umane. PERCHÉ in questo modo la storia riesce meglio ad avvicinare alla matematica chi matematico non è, o non lo è ancora. Attraverso gli aneddoti, le curiosità e altre osservazioni meno superficiali, gli studenti sono aiutati a capire che la matematica non è un mondo freddo, perfetto, già confezionato, da subire e ingerire come un medicinale. È invece la partecipazione ad un’avventura nella quale bisogna rispettare determinate regole ma per il resto si discute (come in tutte le altre materie a scuola) e si è liberi di scegliere, seguire le proprie passioni, costruire il futuro. PERCHÉ il riferimento al passato chiarisce che la matematica, come ogni avventura umana, si è sviluppata attraverso progetti di ricerca che inevitabilmente hanno risentito del tempo in cui furono elaborati, della cultura e delle mode del periodo, degli orientamenti anche non strettamente scientifici dei ricercatori. Certo, vale pure in questo caso l’osservazione che il passato non può essere trasportato meccanicamente nel presente; comunque il suo studio, anche dei decenni a noi più vicini, riesce perlomeno a insinuare il dubbio che la matematica non sia, oggi come ieri, un formalismo vuoto ma la traduzione in un particolare linguaggio delle idee dei suoi ricercatori, di come vedono il mondo e di come pensano di approfondirne lo studio. A volte la traduzione è folgorante perché permette di cogliere aspetti e connessioni che prima non si vedevano, altre volte è meno significativa: la ricerca matematica non ruota solo attorno a vero-falso, giusto-sbagliato, 0-1 ma si distingue per la maggior o minor significatività delle sue acquisizioni. Non basta aver fatto giusti i calcoli, occorre aver detto qualcosa di significativo! PERCHÉ la considerazione del passato aiuta a collocare il pensiero matematico al centro di una fitta rete di relazioni, influenzato dal contesto sociale e culturale in cui si è sviluppato, ma anche artefice di proposte che hanno in parte trasformato le altre culture. Parliamo di idee, di modi di rappresentare e capire il mondo, non di semplici numeri. La matematica ha permeato momenti tra i più significativi della letteratura, dell’arte, dell’architettura, della filosofia. Delle altre culture scientifiche. La storia della matematica mostra come nei secoli e nei decenni a noi più vicini, mediati dai rapporti con l’ingegneria e la tecnologia, i risultati matematici si trovino alla base di molti e delicati aspetti della nostra società e della vita di tutti giorni. PERCHÉ ci insegna che lo sviluppo della matematica – la scienza che sembra la più lineare e continua di tutte, costruita mattone dopo mattone – non è stato invece sempre così tranquillo. Ci sono stati dei momenti in cui i matematici hanno deciso di cambiare radicalmente il loro pensiero o perlomeno hanno cambiato in modo brusco la direzione di marcia. Significa che la matematica di domani non è già scritta, da scoprire ma in realtà completamente determinata da quella di ieri e da quella attuale. Sono i matematici di oggi a scegliere con il loro lavoro di ricerca (e, certo, con la tradizione accumulata nei secoli) quale sarà la matematica del futuro. Se determinati aspetti della matematica di oggi ci piacciono, vanno difesi perché non è detto che si conservino automaticamente; se altri aspetti invece non ci piacciono, possiamo cambiarli. E se questo vale per la matematica, dove sembra che tutto rimanga immutato e dove trionfa il luogo comune del “2 + 2 fa sempre 4”, beh, allora, un futuro diverso può dovunque essere sognato e costruito! PERCHÉ ci serve allora per capire il presente e pensare al futuro. Se si fa un passo indietro nel tempo, la retta che congiunge il passato con il momento attuale è una corda che, prolungata, può darci delle indicazioni utili a proposito di quanto succederà in futuro; se poi il passato è abbastanza vicino e la corda tende a diventare la retta tangente, l’approssimazione sarà ancora migliore. La storia non è erudizione, non riguarda i morti e il passato. Riguarda il nostro futuro! PERCHÉ, infine, è un bel racconto. È un’avventura straordinaria e collettiva, quella realizzata da alcuni giganti e da molti altri matematici che sono saliti sulle loro spalle, che può essere raccontata a diversi livelli ma sempre letta con piacere. Ci auguriamo che succeda anche con questo numero di Prisma, con l’intervista ad Aldo Brigaglia (per molti anni, docente di storia della matematica all’università di Palermo), gli articoli dedicati a Pierre de Fermat, Évariste Galois e Felix Hausdorff e la riflessione sull’esperienza in classe di un approccio di tipo storico.

“LA STORIA DELLA MATEMATICA È UN VALORE CIVILE E POLITICO”

A lungo docente di storia della matematica a Palermo, Aldo Brigaglia è stato tra gli autori del volume sulla storia del Circolo matematico del capoluogo siciliano, fondato nel 1884 da Giovan Battista Guccia. Sono passati 40 anni dalla pubblicazione del libro scritto con Guido Masotto (e la collaborazione di Pietro Nastasi, che però aveva preferito non figurare tra gli autori).

Come mai tu, giovane laureato da pochi anni e con buone prospettive di ricerca in geometria, hai scelto la strada degli studi storici?

Per molti di noi, gli anni ‘70-‘80 furono anni di grandi passioni e impegno politico. Anche per me. In politica, gli studi storici già mi piacevano e mi occupavo della storia del movimento operaio e contadino in Sicilia ma vivevo, un po’ angosciato, la dissociazione tra la matematica e l’impegno politico. La storia della matematica mi ha permesso di sanare questa contraddizione: mi occupavo di matematica riuscendo a proiettare nelle ricerche storiche i miei giudizi e i valori in cui credevo.

Quella sul Circolo matematico di Palermo è stato la prima uscita pubblica della nuova generazione di storici della matematica italiani?

Forse. Per la storia della matematica, quelli che stiamo ricordando sono stati in Italia anni di incontri tra diverse esperienze. A Torino c’era Tullio Viola, che ha fatto da cerniera tra due diverse generazioni e tra i matematici e gli storici della matematica. A Siena c’era Laura Toti Rigatelli, a Roma erano attivi alcuni allievi di Lombardo Radice, un gruppo significativo era presente anche a Napoli. Si stava formando anche un gruppo nazionale promosso e coordinato da Enrico Giusti e Luigi Pepe. Da lì a non molto avrebbe cominciato la sua attività a Milano, soprattutto in ambito divulgativo, il Centro Pristem.

Il libro sul “Circolo” è stato significativo anche per l’attenzione dedicata al nostro Mezzogiorno in campo scientifico.

Mi aveva colpito l’affermazione ripresa da Sciascia per cui la Sicilia, dopo Archimede, non avrebbe più avuto uno scienziato di valore fino a Majorana. La storia del Circolo matematico di Palermo smentisce questo luogo comune. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale, il Circolo di Giovan Battista Guccia è stata la massima espressione organizzata della matematica italiana, punto di riferimento per i maggiori matematici europei. Non a caso fu al “Circolo”, assieme all’Accademia dei Lincei, che venne proposto di organizzare il Congresso Internazionale dei matematici, a Roma, nel 1908. Neppure è un caso se la storia del “Circolo” raggiunge il suo apice in un periodo particolarmente felice per la città di Palermo, con l’ascesa di una borghesia moderna e produttiva e l’affermazione di un liberty siciliano in campo artistico. Ci sono dei momenti importanti, nella storia delle scienze in Sicilia, che sempre hanno accompagnato i tentativi più alti di riscatto sociale e politico.

Dopo il libro sul “Circolo” di che cosa ti sei occupato nei tuoi studi storico-matematici?

La storia della geometria algebrica italiana, con particolare riferimento alla figura di Luigi Cremona, matematico e uomo politico, è stata l’argomento a cui forse ho dedicato più tempo. Ma mi sono occupato anche del Settecento con lo studio di carteggi e manoscritti inediti, soprattutto a proposito della diffusione del newtonianesimo e dello sviluppo del calcolo differenziale in Italia.

Quali sono adesso i centri più importanti in Italia per la storia della matematica?

A Torino ci sono colleghe molto attive nello studio dei matematici e delle istituzioni piemontesi e anche particolarmente attente all’utilizzo della storia nell’insegnamento. Poi Pisa, Firenze, Ferrara, Roma e altre presenze individuali, ugualmente significative, in diverse università. Ma il settore storico-matematico soffre per le difficoltà dovute a un incerto ricambio generazionale. La mia generazione è andata, o sta andando, in pensione e per i giovani non è che di prospettive certe e di posti ce ne siano molti. Per dirla in termini morbidi, non è che il mondo matematico italiano investa molto sugli studi storici.

I giovani storici della matematica non sembrano comunque animati dalla stessa passione civile e politica che tu ricordavi all’inizio.

I giovani ricercatori sono forse tecnicamente più bravi di noi, anche perché possono avvalersi di contatti internazionali che noi dovevamo costruirci ex novo, ma sembrano meno impegnati da un punto di vista politico. È vero. Perlomeno sono meno interessati a far figurare la passione civile tra le motivazioni dei propri studi. Ma è un giudizio per il quale si potrebbe pure fornire qualche controesempio, come quello della continuazione delle ricerche sulle leggi razziali del 1938 e le loro conseguenze in campo scientifico.

Accennavi all’importanza nell’insegnamento di un approccio storico. Ma perché non si riesce a passare dalle parole ai fatti?

Per almeno due ragioni. Perché non si riuscirà mai a cambiare l’insegnamento più tradizionale se non si cambiano gli esami: finché al liceo scientifico l’esame di maturità rimane quello che è, gli insegnanti non se la sentiranno di percorrere strade nuove, preoccupati di finire il programma. Poi, secondo motivo, un approccio di tipo storico è più difficile, sia per gli insegnanti sia per gli allievi: ti obbliga a lasciare la rassicurante fissità delle formulette per navigare in mare aperto. (a.g.)

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