Il merito e il fallimento nel Conte di Montecristo

Tra le infinite pagine del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas troviamo la storia di Pierre Morrel, uomo d’affari e armatore della nave mercantile Pharaon. Non è facile ricordarsi di lui tra Edmond Dantès e l’abate Faria, i personaggi del romanzo che tutti portiamo nel cuore, ma la mitezza e la dignità di Morrel, la sua storia travagliata e tragica, a non-lieto e lieto fine, parlano oggi a chiunque ha fatto, sta facendo e vorrà fare impresa. Accanto a Morrel troviamo la sua famiglia, i suoi amici, i suoi operai (l’equipaggio del Pharaon). Senza di loro non esisterebbe la storia di Morrel così come oggi, al di là delle ideologie, nessuna impresa sopravvivrebbe senza il lavoro, l’impegno e l’aiuto di tanti. La storia di Morrel allora non è soltanto per chi fa impresa: riguarda tutti, ci riguarda. Come suo padre prima di lui, e suo nonno prima di suo padre, Morrel è armatore di una flotta di mercantili di cui il bastimento Pharaon è la punta di diamante. Generalmente, l’armatore non era anche proprietario delle navi: si occupava del carico, della flotta e della buona riuscita degli affari. Era ciò che forse oggi definiremmo un manager. Ma la famiglia Morrell, da generazioni in questo campo, doveva aver accumulato tali ricchezze da poter acquistare le navi prima soltanto amministrate. Il primo incontro tra Dantès, comandante in seconda del Pharaon, e Morrel rivela molto della differenza tra proprietario e manager: “Ah siete voi Dantès?”, esclamò l’uomo della barca. “E che è accaduto, e perché quest’aria di tristezza sulla vostra nave?”. “Una gran disgrazia, signor Morrel – rispose il giovane – gran disgrazia particolarmente per me. All’altezza di Civitavecchia abbiamo perduto il bravo capitano Leclerc”. “E il carico?”, domandò con premura l’armatore. “È giunto a buon porto, signor Morrel, e sono persuaso che sotto questo aspetto sarete contento. Ma il povero capitano Leclerc…”. “Che gli è dunque accaduto?”, domandò l’armatore notevolmente rallegrato. Persino davanti alla morte del capitano, l’attenzione del proprietario Morrel era per il suo carico. Come Dumas, non assumiamo atteggiamenti moralistici verso l’armatore. La preoccupazione non è per il carico come oggetto ma per ciò che c’è dietro: stipendi per i suoi impiegati, sostentamento della sua famiglia e, senza voler imbellettare o nascondere delle parti dell’animo umano, anche un naturale desiderio di guadagno. La grandezza dello scrittore Dumas sta nel restituirci il vero Morrel. Non un eroe ma un uomo pratico, onesto, sincero: “Che volete, Edmond – riprese l’armatore che sembrava consolarsi sempre più – siamo tutti mortali, e bisogna bene che i vecchi cedano il posto ai giovani; senza questo, non vi sarebbe più progresso e al momento che voi mi assicurate che il carico…”. Che Morrel avesse a cuore il carico non (solo) come fine, ma come mezzo per il sostentamento delle persone che da esso dipendevano, lo dice il corso degli eventi. Vittima di un complotto dei suoi nemici e tra l’impotenza attonita dei suoi amici, Edmond Dantès viene ingiustamente accusato di bonapartismo e rinchiuso nella terribile prigione del castello d’If, dove sconterà la prigionia per quattordici anni. A volte sono tentato di pensare che senza la prigionia di Dantès non avremmo avuto le pagine più belle del Conte di Montecristo, le sue preghiere e bestemmie, il rumore che lo salvò dalla morte, l’incontro e l’amicizia con Faria, la voglia di vita che lo portò alla fuga. Negli abissi più profondi, per contrasto con l’oscurità, spesso si trova la luce più chiara e diafana. Il padre e l’amata Mercedes nulla poterono per salvare il povero Edmond da quel destino infame. Ma non furono i soli a provarci. Dopo essere sfuggito alla prigionia e rientrato nel mondo, arricchito dal tesoro dell’isola di Montecristo, Dantès sotto mentite spoglie si informa sugli avvenimenti dei 14 anni passati in cella. Questo fu quanto gli venne narrato su Morrel: “Mi avete nominato due o tre volte un certo signor Morrel – disse – Chi era quest’uomo?”. “Era l’armatore del Pharaon, il padrone e protettore di Dantès.” “E quale parte ha sostenuta in tutta questa triste faccenda?”. “La parte dell’uomo onesto, coraggioso e affezionato. Venti volte fu ad intercedere per Edmond. Quando ritornò l’Imperatore, scrisse, pregò, minacciò, e tanto fece che, nella seconda Restaurazione, fu grandemente perseguitato come bonapartista. Dieci volte, come vi ho detto, è venuto dal padre di Dantès per ricoverarlo in casa sua, e il giorno prima della sua morte aveva lasciato sul caminetto una borsa con la quale furono pagati i debiti del buon uomo e le spese dei funerali… Povero vecchio, poté almeno morire come aveva vissuto, senza essere di peso a nessuno. Ho ancora quella borsa, una borsa di seta rossa”. Alcune pagine prima, Dumas si era permesso un commento sul mite Morrel: “Nell’agire in tal modo vi era, più che beneficenza, coraggio”. Morrel, che voleva fare di Edmond il capitano del suo Pharaon, fu sempre amico vero di Dantès, testimonianza indelebile che dove ci sono rapporti di lavoro può fiorire anche autentica e sincera amicizia. La lealtà di Morrel per Dantès commuove: è quella fedeltà non vista e non riconosciuta, che non cerca onori o ricompense, ma che nutre silenziosamente i rapporti umani. Lasciamo per un attimo Dantès, oramai divenuto il Conte di Montecristo, e volgiamoci alle sorti di Morrel. “E questo signor Morrel vive ancora?”, “Sì – disse Caderousse – e in questo caso dev’essere un uomo benedetto dal cielo, dev’essere ricco… felice…”. Caderousse sorrise amaramente. “Sì, felice come lo sono io…”, disse. “Come! Morrel sarebbe rovinato?”, gridò l’abate. “É vicino alla miseria, e peggio ancora è vicino al disonore”. “E come?”. “Dopo vent’anni di fatiche – rispose Caderousse – dopo essersi acquistato il posto più onorevole nel commercio di Marsiglia, Morrel è rovinato da cima a fondo. In due anni ha perduto cinque bastimenti, sofferto tre fallimenti terribili ed ora non ha più altre speranze che quello stesso Pharaon, che era comandato dal povero Dantès e che deve ritornare dalle Indie con un carico di cocciniglia e di indaco. Se questo bastimento si perde come gli altri, è rovinato del tutto”. “E il disgraziato ha moglie, figli?”. “Sì, ha una moglie che in tutte queste avversità si è condotta come una santa; ha una figlia che stava per sposare l’uomo da lei amato, e la famiglia del quale si è opposta a un matrimonio con la figlia di un uomo fallito, ha un figlio sottotenente nell’esercito. Ma, voi lo capirete bene, tutto ciò non fa che raddoppiare il dolore del povero uomo”. […] “Ecco come in questa vita viene ricompensata la virtù”. Come disse Camus di Sisifo che scendeva piano dalla montagna con la pietra inesorabilmente a valle, è qui che Morrel (Sisifo) interessa. A causa di una tempesta il Pharaon non arrivò mai in porto. Un imprenditore onesto, un padre amorevole, un uomo buono con i suoi amici, a causa di tante e varie avversità – e magari di qualche errore, Dumas è così delicato da non dircelo esplicitamente – si indebita ed è sull’orlo del fallimento. Le pagine di Dumas sono una sferzante critica alla retorica della meritocrazia di oggi, che ci conduce inesorabilmente a identificare il successo con il merito. Come sapeva bene Victor Hugo (“Il successo è una cosa piuttosto lurida; la sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini”) ci sono tanti elementi oltre al merito a contribuire alla buona riuscita di un’impresa: la fortuna, intesa come congiunture sociali, economiche e politiche favorevoli; l’aiuto da parte di altre persone; delle condizioni di partenza favorevoli (buona famiglia, istruzione, istituzioni, e così via) e tanto altro ancora. Dumas con Morrel ci ricorda che il mercato, ma più in generale la vita, non sono meritocratici: non otteniamo sempre risultati eguali ai nostri sforzi. È una lezione importante perché dietro la coppia successo-merito si nasconde, pericolosa e terribile, l’altra faccia della medaglia, fallimento-demerito. Morrel si sente colpevole dei suoi fallimenti davanti alla famiglia, che non può più mantenere, all’equipaggio del Pharaon che non può più pagare, ma anche verso quel mondo commerciale nel quale più del denaro conta l’onore, cioè la reputazione di integerrimo uomo d’affari. Piuttosto che deludere sé stesso e gli altri, Morrel sceglie il suicidio. A scoprire il terribile piano di Morrel è il figlio Maximilien, giovane militare, orgoglio e speranza del padre, tornato immediatamente a casa alla notizia dei suoi debiti e dell’imminente fallimento. Il dialogo tra i due è struggente e mi chiedo cosa abbia provato Dumas nello scrivere queste righe dove, senza ombra di dubbio, i personaggi e la storia sono diventati più grandi di lui e hanno preso la penna in mano. Eccone alcuni passaggi: “Morrel doveva pagare dopo mezz’ora duecentottantasettemilacinquecento franchi e in tutto ne possedeva quindicimiladuecentocinquantasette. “Leggi!”, disse Morrel. Il giovane lesse e rimase un momento annientato. Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere all’inesorabile decreto delle cifre? “E voi padre mio, avete fatto tutto il possibile per prevenire questa disgrazia?”, disse dopo breve silenzio il giovane. “Sì”, rispose Morrel. “Non contate su alcun rimborso?”. “No”. “Avete esaurite tutte le risorse?”. “Tutte”. “E fra mezz’ora – aggiunse con voce cupa – il nostro nome sarà disonorato?”. “Il sangue lava il disonore”, disse Morrel. “Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo”. Colpisce l’ultima frase di Maximilien, come se la logica del soldato, ben avvezza al linguaggio di onore e disonore, portasse a equiparare il fallimento a una sconfitta in battaglia e il non poter pagare i debiti a un tradimento. Tanto che il figlio si offre di aiutare il padre a espiare le sue colpe con un altro suicidio. Ma un tradimento verso chi, quali colpe, chiediamo noi attoniti? Continuiamo la lettura: “Tu sai che non è per mia colpa?”, disse Morrel. Maximilien sorrise: “So, padre mio, che siete l’uomo più onesto che abbia mai conosciuto”. “Sta bene, è detto tutto: ora ritorna da tua madre e da tua sorella”. “Padre mio – disse il giovane piegando un ginocchio – beneditemi!”. Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani, l’avvicinò a sé e v’impresse molti baci dicendo: “Oh, sì, sì, ti benedico nel mio nome, nel nome di tre generazioni di uomini irreprensibili. Ascolta dunque ciò che essi ti dicono con la mia voce: l’edificio che la sventura ha distrutto, può essere riedificato dalla divina Provvidenza. Sapendomi morto in questo modo, i più inesorabili avranno pietà di me; a te forse sarà accordata una dilazione che a me sarebbe stata negata. Allora fa’ che la parola infame non sia pronunziata; mettiti all’opera, lavora, ragazzo! Lotta ardentemente e con coraggio! Vivete tu, tua madre e tua sorella del puro necessario, affinché giorno per giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino fra le tue mani. Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno solenne quello della riabilitazione, il giorno in cui, da questo stesso scrittoio, tu potrai dire: “Mio padre è morto perché non poteva fare ciò che ho fatto io, ma è morto tranquillo, perché morendo sapeva che io lo avrei fatto”. “Oh, padre mio, padre mio – esclamò il giovane – se pure poteste vivere!”. “Se io vivo tutto è perduto; se io vivo, la premura si cambia in dubbio, la pietà in accanimento; se io vivo, non sono più che un uomo che ha mancato alla sua parola, che ha fallito i suoi impegni, non ho più infine che la bancarotta”. Oh, Morrel! Imprenditore amico degli imprenditori. Sapeva bene che fortuna e sorte avevano determinato per la maggior parte le sue sventure. Quasi a dirci che non basta la consapevolezza personale che merito e successo non sono la stessa cosa per evitare di vivere il fallimento economico come fallimento esistenziale. È la società tutta a doverlo capire, altrimenti nulla cambierà per i tanti e le tante Morrel che oggi vivono situazioni simili e scelgono il suicidio. Che il figlio e la Provvidenza potessero ribaltare le sorti della famiglia Morrel era certo una consolazione, ma parziale, perché richiedeva necessariamente che lui pagasse la cambiale più alta della propria vita con la vita stessa. Qui Dumas riprende la penna e osserva sbigottito la scena da lui creata: “Ciò che in quel momento passò nello spirito di quest’uomo che, giovane ancora, in conseguenza di un ragionamento falso, quantunque tale non sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte le dolcezze della famiglia, è impossibile poterlo spiegare; sarebbe stato necessario essere presenti per averne un’idea”. Noi non c’eravamo, come tanti non hanno potuto esserci per i loro cari che hanno seguito la strada di Morrel. È a costoro che dedichiamo il primo finale del racconto. Ma dobbiamo andare avanti, perché la storia non finisce qui. Nel momento più tragico, quando Morrel ha la pistola in bocca ed è pronto, tra le lacrime, a premere il grilletto, entra la figlia con una borsa di seta rossa. Edmond Dantès, il Conte di Montecristo, per l’occasione sotto mentite spoglie di funzionario della ditta “Thomson and French”, non solo aveva rilevato i debiti di Morrel dai suoi implacabili creditori, ma aveva anche dato a sua figlia i denari per ripagarli. No, caro Caderousse, non è sempre vero che la virtù in questo mondo rimane senza ricompensa. La borsa di seta rossa, simbolo degli sforzi di Morrel per salvare l’amico Dantès, riesce questa volta a salvare l’armatore. È il circolo della gratuità, azioni che facciamo non per interesse e che a volte tornano, in forme e dimensioni diverse, a farci del bene. Ma c’è di più. Come il ticchettare del muro della prigione (l’abate Faria che scavava un tunnel per evadere) salvò Dantes dalla morte, così grida di gioia ed esultanza annunciarono l’ingresso del Pharaon nel porto, riportando Morrel alla vita. Era una nuova nave, fatta costruire in segreto da Dantès, che portava la scritta Pharaon: Morrel e figli di Marsiglia. Dantès non rivelò mai a Morrel la sua vera identità e quello che aveva fatto per lui: “Mentre Morrel e suo figlio si abbracciavano fra gli applausi di tutta la città, testimone di questo prodigio, un uomo, il cui viso era per metà coperto da una barba nera, nascosto dietro il casotto di una sentinella, contemplava questa scena, mormorando queste parole: “Nobile cuore, sii felice, sii benedetto per tutto ciò che ancora farai, e la mia riconoscenza resti nell’oscurità come il tuo beneficio!”. Forse non ci saranno sempre un Dantès, una borsa di seta rossa e un lieto fine, ma l’armatore Morrel, amico leale, è al fianco di tutti gli imprenditori e le imprenditrici di oggi, soprattutto di quelli in difficoltà. È lì nel porto con voi ad aspettare l’arrivo del Pharaon.

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