Vorrei ma non Pos

A seconda dei punti di vista, la marcia indietro del governo sul limite all’obbligo dei pagamenti elettronici può essere definita una rovinosa débacle rispetto a certi proclami oppure una scelta di saggio e flessibile pragmatismo di fronte alle resistenze della Commissione Ue e agli obiettivi in materia di transazioni dematerializzate contenuti nel Pnrr. Qualcuno ci ha scherzato sopra riferendosi al “vorrei ma non Pos” di Giorgia Meloni, in ogni caso le parole del pur misurato commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, non potevano restare senza conseguenze: “Incentivare i pagamenti elettronici e la fatturazione elettronica è un impegno già preso dal governo italiano relativamente al Pnrr. Non possiamo prendere impegni sui pagamenti e poi contraddirli dopo pochi mesi”. Dunque, dietrofront dell’esecutivo che torna sulla strada, già battuta dai predecessori, dei crediti di imposta o comunque delle compensazioni a favore degli esercenti. I partiti di centrodestra sono da sempre molto sensibili alle istanze e alle rimostranze dei commercianti che lamentano alti costi di gestione degli strumenti di pagamento elettronici. Ma è davvero così? In realtà il valore delle commissioni è sceso parecchio negli ultimi anni, grazie a un livello alto di concorrenza nel settore. Secondo i dati Bankitalia-Prometeia sul 2021, in Norvegia il costo delle transazioni digitali è all’1,5% (pagamenti con carte al 56% del totale), nei Paesi Bassi siamo all’1,4% e in Germania all’1,3%. Nel Regno Unito le transazioni dematerializzate sono il 66% del totale e il costo medio è allo 0,8%, in Italia siamo invece allo 0,7% e i pagamenti elettronici si attestano ancora al 32%. Dunque, il Bel Paese non è affatto il più caro in Europa per la gestione dei Pos, anche in ragione del rilevante impatto della grande distribuzione che, va detto, contribuisce ad abbassare i costi medi. Sono tre i soggetti cui vanno le commissioni sul cashless. In primis c’è la banca che emette la carta di credito o debito e trattiene di norma intorno allo 0,2- 0,3%. Poi c’è il circuito su cui si appoggia il pagamento (Mastercard, Visa, PagoBancomat, Maestro…) e che trattiene in media lo 0,2% sul bancomat e fino allo 0,5% sulla carta di credito; questi operatori mettono in comunicazione il Pos con la banca e si assumono il rischio che poi i soldi non siano effettivamente presenti sul conto di chi paga. Infine, ci sono le commissioni legate al Pos stesso, con la banca o l’operatore che trattiene in media lo 0,3-0,4%. In pratica, abbiamo commissioni che si aggirano complessivamente sullo 0,7% per le carte di debito e intorno all’1-1,2% per le carte di credito. C’è poi da valutare e decidere se noleggiare o comprare il Pos. Nel secondo caso bisogna affrontare le successive spese di manutenzione che invece, con il noleggio, sono a carico dell’operatore. Peraltro, nell’ultimo quinquennio i costi di acquisto sono crollati del 66,5% secondo i dati dell’Osservatorio ConfrontaConti.it e Sostariffe.it. Oggi la spesa media è di 22,82 euro contro i 61,74 del 2017. Più in generale, banche e operatori offrono sconti e promozioni sulle tasse per le transazioni. Malgrado una competizione che abbatte le tariffe, il guadagno per istituti di credito e operatori di pagamento è ragguardevole, anche perché, dall’altra parte, il volume delle transazioni dematerializzate è in continuo aumento. Secondo l’Osservatorio Digital Innovation del Politecnico di Milano, nel 2021 i pagamenti digitali italiani hanno raggiunto un volume di 327 miliardi di euro, con un incremento del 22% rispetto al 2020. Nel primo semestre del 2022 siamo già a 182 miliardi (+22% sullo stesso periodo dell’anno precedente), con una proiezione a fine anno intorno ai 400 miliardi. Se consideriamo un costo medio per gli esercenti poco sotto l’1%, possiamo dedurre che banche e operatori l’anno scorso hanno trattenuto una cifra intorno ai 2-2,5 miliardi per le commissioni. Confesercenti ha rilasciato una stima più conservativa e parziale, parlando di un costo delle transazioni pari a 772 milioni, cifra che somma le commissioni all’acquisto o comodato del Pos. In ogni caso, il trend per il futuro sembra abbastanza chiaro se si considera che, secondo il rapporto Cashless 2022 di The European House – Ambrosetti, 6 italiani su 10 dicono di voler ridurre l’uso del contante per i consumi e 7 su 10 puntano con convinzione sui pagamenti digitali. Alla fin fine, paradossalmente, il costo del contante è ben più alto per gli operatori economici e per tutti i cittadini, anche se spesso meno percepito: ci sono gli esborsi di stampa delle banconote, il lavoro di controllo sull’anticontraffazione, mentre gli esercenti devono perdere tempo per preparare la distinta dei contanti da depositare nelle casse continue in banca. L’istituto di credito, a sua volta, si farà pagare i costi di trasporto dei portavalori o di assicurazione del cash: in media, la banca chiede al cliente una tassa dell’1% per questi servizi. Senza dimenticare i rischi di furto, rapina e i costi legati alla sicurezza che molti esercenti devono affrontare (sistemi di allarme, sorveglianza privata ecc). Tra l’altro, le norme antiriciclaggio prevedono la possibilità di un controllo della Guardia di finanza se in un mese si superano i 10mila euro di deposito di contanti. Tirando le somme, secondo la Banca d’Italia già soltanto stampare le banconote e attivare le verifiche anticontraffazione costa 7,4 miliardi annui, una cifra che per The European House – Ambrosetti potrebbe arrivare a circa 10 miliardi. Senza contare che il cash è il motore dell’economia sommersa che vale in Italia quasi 160 miliardi di euro secondo Istat. I pagamenti elettronici sfiorano ormai quota 7 miliardi di operazioni, stando ai dati di Bankitalia; per il Fisco, a questo punto, la sfida è quella di sfruttare al meglio questa nuova, enorme miniera di informazioni e di dati nell’ottica di “stanare il nero”. Esercenti e tassisti, a scanso di equivoci, continuano a protestare e per la verità, ormai da tempo, vengono in qualche modo ascoltati dai governi. Con la legge di Bilancio 2018 l’esecutivo Gentiloni introdusse un credito di imposta del 50% per i distributori di carburante, dati i loro margini di guadagno risicati. Il governo Conte 2 ha poi allargato il meccanismo, con un credito di imposta del 30% a tutti i commercianti con ricavi sotto i 400mila euro l’anno. Conte, comunque, aveva soprattutto scelto di spostare gli incentivi dai venditori ai consumatori tramite il cashback. Draghi, invece, ha cambiato direzione alzando al 100% il credito di imposta per un anno, a cavallo tra metà 2021 e metà 2022, a favore dei negozianti (400 milioni il costo della misura) e mettendo a punto un “bonus Pos” con credito di imposta fino a 320 euro per chi acquistasse un lettore smart con memorizzazione e trasmissione telematica dei pagamenti elettronici. Il governo Meloni ha mantenuto soltanto l’agevolazione da 50 euro per gli esercenti che si dotano di registratori di cassa telematici a partire dal 2023 e ha tentato il colpo di mano, fallito, sul limite a 60 euro per l’obbligo di accettazione delle carte, provvedimento che ha poi dovuto ritirare. Come conciliare le esigenze di chi vende e quelle di chi compra? “La soluzione – dicono da Altro- consumo – potrebbe essere di azzerare le commissioni di incasso per i pagamenti inferiori ai 10 euro. In questo modo si favorirebbe l’accettazione dei pagamenti digitali dando una scossa al mercato. D’altra parte, l’esperienza di app di pagamento come Satispay dimostra che con commissioni basse (nessuna sotto i 10 euro e una fissa di 20 centesimi sul resto) ed eliminando il costo fisso del Pos, i piccoli esercenti si avvicinano ai pagamenti digitali”.

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