Come deve porsi la ricerca internazionale nei confronti di Israele?

Mentre ci troviamo tutti coinvolti, almeno emotivamente, nel sanguinosissimo conflitto tra Israele e Palestina e l’orrore pervade inevitabilmente la nostra quotidianità, si impone anche una riflessione sui rapporti che il mondo universitario, e la ricerca in generale, italiani e internazionali, debbano avere con le analoghe istituzioni israeliane. Abbiamo a questo proposito intervistato due docenti universitari, Angelo Tartaglia, fisico, del Politecnico di Torino, e Raffaella Rumiati, docente di neuroscienze cognitive alla Sissa di Trieste, che hanno espresso opinioni opposte 

 

Angelo Tartaglia

Gli accordi di collaborazione tra atenei italiani e israeliani possono ignorare l’esistenza di una guerra in corso e la politica perseguita dallo Stato di Israele? Certo, la ricerca scientifica è per sua natura sovranazionale. Come fisico del Politecnico di Torino – dice Angelo Tartaglia – mi è capitato di collaborare con colleghi russi, prima e dopo la perestroika, cinesi della grande Cina e di Taiwan, arabi di vari Paesi, turchi e iraniani, e quello che contava non era la provenienza o la fede religiosa ma solo il merito delle loro ricerche. Ora però stiamo parlando di accordi interuniversitari e la dimensione istituzionale non può prescindere dalle politiche perseguite da ciascun ente e dalle finalità che si pone.
Nel caso di Israele e delle sue istituzioni (università comprese) non si può ignorare il sostrato, diciamo così ideologico, che orienta le loro scelte soprattutto nei momenti di tensione. Dopo secoli di discriminazioni e di persecuzioni perpetrate soprattutto in Europa, sul finire del XIX secolo prese corpo negli ambienti giudaici il
movimento sionista, il cui assunto sostanziale era che l’unico modo per liberarsi da rischi di persecuzioni e discriminazioni era quello di costituire un proprio Stato dotato di una forza sufficiente a difendersi dalle minacce altrui. Il corrispondente territorio sarebbe stato quello ancestrale della Palestina in cui l’ultimo Stato ebraico era stato dissolto dall’esercito imperiale romano una ventina di secoli prima. Poco importava che in venti secoli fosse successo di tutto, lì come nel resto del mondo, e che ora in Palestina accanto a pochi ebrei vivessero molti altri portatori di una diversa cultura e di diverse fedi religiose. Il sionismo è stato poi rafforzato dalle mostruose vicende culminate nella “soluzione finale” hitleriana dei campi di sterminio. Con tutto questo sullo sfondo, la nascita dello Stato di Israele nel 1948 si è connaturata con l’idea che coloro che vivono in Palestina e appartengono ad un’altra cultura religiosa semplicemente se ne devono andare, con le buone o con le cattive. La componente religiosa di questa ideologia aggiunge l’argomento che quella terra è stata assegnata al popolo ebraico direttamente da Dio e chi non appartiene a quel popolo è un usurpatore. È un’impostazione ideologica che ha alimentato istituzionalmente l’espulsione dei non ebrei dalle loro terre. Così, si sono visti e si continuano a vedere i “coloni” impossessarsi delle terre altrui con la forza e con la copertura dell’esercito dello Stato di Israele, distruggendo villaggi preesistenti e costruendo nuovi insediamenti fortificati. La forza doveva essere assicurata ai massimi livelli e illegalmente, rispetto ai trattati internazionali: Israele si è dotato anche di armi nucleari. Sviluppo, questo, che ha necessariamente coinvolto il mondo della ricerca, compresa quella accademica.
Oggi le istituzioni di ricerca israeliane sono, in alcune loro articolazioni, sistematicamente coinvolte in progetti militari finalizzati a garantire alle forze armate la capacità di colpire efficacemente i nemici comunque e dovunque e a prevenire e neutralizzare attacchi da parte di altri. I nostri atenei possono fingere di ignorare tutto ciò, all’atto di stabilire accordi di collaborazione con quelle istituzioni?
Le mie osservazioni si basano su fatti e ragionamenti ed è fastidioso vederle tacciare, senza entrare nel merito, di “antisemitismo”. Sul piano razionale non è difficile rilevare che l’impostazione secondo cui dalla Palestina gli “estranei” che sono lì da generazioni se ne devono andare, con le buone o con le cattive, alimenta fra questi “estranei” il ricorso ad atti che possiamo definire terroristici: per gruppi nati in quel contesto è Israele che dovrebbe scomparire e, in assenza di un proprio esercito strutturato, si colpisce alla cieca tutto e tutti. Si arriva così alla mostruosità dell’attacco del 7 ottobre 2023 con i suoi 1.300 morti, gli ostaggi e tutto il resto. L’idea di venirne a capo con la “logica” della vendetta e della rappresaglia – anzi con l’idea di eliminare Hamas, uccidendo uno per uno tutti i suoi miliziani in una sorta di “soluzione finale” (tragica analogia) anche a prescindere dagli “effetti collaterali”, cioè, fino ad oggi, più di 35.000 morti di cui un 40% bambini – farà, comunque vada, nascere e moltiplicare l’odio e le pulsioni “terroristiche” nei confronti di Israele.
Nello stabilire rapporti istituzionali, si può far finta di ignorare tutto ciò? Si sarebbe forse “neutrali” avallando e indirettamente sostenendo politiche come quelle che lo Stato di Israele continua a perseguire? Possiamo da un lato compiangere le sofferenze delle vittime nella striscia di Gaza e dall’altro continuare a fornire (come stanno facendo gli Stati Uniti ma anche l’Italia) sofisticati armamenti allo Stato di Israele? Possiamo direttamente o indirettamente concorrere, con la ricerca, a sviluppare nuovi armamenti per quello Stato (o per chiunque altro)? Io penso di no.

 

Raffaella Rumiati

Il 7 ottobre 2023, circa 1.000 terroristi di Hamas provenienti da Gaza hanno invaso la regione meridionale di Israele massacrando barbaramente più di 1.200 civili e rapendone 253. Fuori da Israele, il cordoglio per le vittime dell’attacco terroristico, tra cui bambini, giovani donne e uomini e anziani, ha avuto una vita incredibilmente breve. Anzi, subito dopo il 7 ottobre, il sentimento crescente in buona parte dell’Occidente è stato l’antisemitismo. Questa interpretazione si estende anche alle dimostrazioni che continuano a verificarsi nei campus delle università anche nel nostro Paese. L’antisemitismo è spesso implicito e preconscio e, in quanto tale, agisce in assenza della consapevolezza delle persone che lo provano. È sottotraccia quando l’anticolonialismo e l’internazionalismo, che storicamente hanno certamente espresso anche istanze condivisibili, tentano di ricondurre il conflitto fra israeliani e palestinesi a una semplice dicotomia oppressori/oppressi. Oppure quando si ignora che il governo guidato da Netanyahu è stato sistematicamente criticato per quindici mesi nel corso di imponenti manifestazioni popolari, alle quali hanno partecipato in massa i colleghi e gli studenti delle università israeliane che invece sono presi di mira dalle azioni di boicottaggio. L’antisemitismo è in agguato anche in coloro che vivono con angoscia il conflitto in atto, la presenza di numerose vittime civili e le condizioni difficilissime in cui si trova a vivere la popolazione gazawi.
Per elaborare l’interpretazione che è alla base delle varie manifestazioni di boicottaggio che agitano anche le università italiane, partirei dai risultati di una rilevazione condotta dall’Istituto Cattaneo tra il 29 settembre e il 31 ottobre dello stesso anno, e pubblicati il 20 novembre 2023. Asher Colombo e collaboratori hanno raccolto le opinioni di 2.579 studenti dei primi anni di corsi di laurea umanistici e non umanistici di tre grandi atenei dell’Italia settentrionale. Delle 15 affermazioni somministrate, 13 erano divise in tre gruppi (accusa della cospirazione, accusa di “doppia lealtà”, accusa di comportarsi da nazisti) ed esprimevano pregiudizi negativi; due esprimevano il contributo positivo attribuito agli ebrei negli ambiti della scienza e della cultura. Quest’ultima categoria è l’unica a fornirci una buona notizia: due studenti su tre considerano vera l’affermazione che “la cultura occidentale è debitrice di molte idee fondamentali nei confronti della cultura ebraica” e circa quattro su cinque quella che “la scienza moderna non sarebbe quella che è senza il contributo degli ebrei”.
Ciò che è rilevante per quello che si discute qui è che lo studio dell’Istituto Cattaneo permette di analizzare la sequenza temporale di come gli atteggiamenti verso gli ebrei e verso Israele degli studenti esaminati, contenuti nelle tre categorie elencate sopra, siano cambiati in tre periodi distinti: prima del 7 ottobre, dall’8 al 16 ottobre e dal 17 al 31 ottobre. L’adesione agli atteggiamenti negativi cala per effetto di quanto accaduto il 7 ottobre, ma questo ridimensionamento si esaurisce rapidamente. Per esempio, dopo il 17 ottobre, l’adesione all’affermazione: “Gli ebrei muovono la finanza mondiale a loro vantaggio” diminuisce, ma il grado di adesione all’affermazione: “Gli ebrei hanno sempre avuto un potere politico sproporzionato” aumenta subito dopo il 7 ottobre con una tendenza che continua anche dopo il 17 ottobre (entrambe contenute nella prima categoria “accusa della cospirazione”). L’adesione alle affermazioni della seconda categoria ‘accusa di doppia lealtà degli ebrei’ subisce solamente una leggera riduzione nel periodo considerato. I dati più preoccupanti sono quelli rilevati con la terza categoria di affermazioni (accusa di comportarsi da nazisti). In particolare, la percentuale degli studenti che concordano con l’affermazione che assimila il comportamento di Israele a quello della Germania nazista aumenta subito dopo l’attacco terroristico di Hamas, “molto prima della risposta del governo israeliano”. È una reazione a quell’evento, non agli eventi successivi (42% prima del 7 ottobre, 46,2% nel periodo 8-16 ottobre e 50% nel periodo 17-31 ottobre).
Questi dati, unitamente all’afasia delle associazioni femminili internazionali nel denunciare gli stupri sulle donne israeliane il 7 ottobre, dimostrano che quanto accaduto quel giorno ha suscitato emozioni del tutto passeggere e sostengono l’interpretazione che l’adesione ad atteggiamenti negativi verso Israele e gli ebrei è stata possibile perché il pregiudizio antisemita era dormiente. Queste osservazioni dovrebbero farci riflettere sulle motivazioni profonde che promuovono azioni di boicottaggio nei confronti delle università israeliane. La ricerca e la formazione adempiono alla propria missione se rimangono al riparo da pregiudizi. Questo è l’unico internazionalismo cui l’università dovrebbe aspirare.

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