Era da parecchio tempo che volevamo parlare con Giovanna Fragneto, ricercatrice formatasi in Italia ma che svolge il suo lavoro altrove. Nel suo caso all’Institut Laue-Langevin (ILL) di Grenoble dove coordinava e gestiva fino a pochi giorni fa un gruppo che studia strutture su larga scala e faceva ricerca nell’ambito della materia soffice. C’è però voluta la nomina a direttore scientifico e coordinatore dell’European Spallation Source (ESS) per trovare il modo di incontrarsi. In pieno trasloco. Sulla parete alle sue spalle una libreria è ancora totalmente vuota e solo il panorama che si coglie dalla finestra di fianco alla sua scrivania dà un’idea del luogo in cui adesso Giovanna lavora.
Come sei arrivata in Svezia? Che cosa ci fai in questo studio da Grande Nord?
Sono una ricercatrice, incaricata della direzione scientifica di questa organizzazione che è una sorgente di neutroni a spallazione europea, una sonda che permette di studiare la struttura della materia a livello dell’Ängström, quindi al di sotto del nanometro, e dinamiche dell’ordine del picosecondo, nanosecondo, insomma rapidissime. È un grosso progetto, non della Comunità europea ma finanziato da vari Stati europei. Un progetto che è costato e costa svariate centinaia di milioni di euro e il cui primo esito è la costruzione della sorgente di neutroni più potente al mondo, in grado di studiare la struttura e la dinamica della materia. Dicendo materia penso a materiali di interesse per l’energia come le batterie o per la salute con studi per il cancro, l’Alzheimer, o ancora per sistemi magnetici.
Da dove è cominciata questa storia?
Mi sono laureata in chimica a Napoli nel novembre del 1992 e, prima di laurearmi, ho trascorso un anno in Inghilterra con il progetto Erasmus a Norwich. Era uno dei primissimi anni dell’Erasmus – a Napoli era il secondo anno – e fui l’unica a far domanda e quindi l’ho ottenuto molto facilmente. A Norwich, un professore mi ha suggerito di fare un dottorato. Io non ci avevo proprio pensato: immaginavo di laurearmi e di cercare lavoro in un’industria. Mi ha dato una lista di professori ai quali scrivere per chiedere se avevano una borsa di dottorato. Al primo posto c’era l’università di Oxford e mi ha detto: “Prova prima qui perché è la migliore”. A Oxford ha funzionato immediatamente e sono partita. Ho fatto un dottorato in chimica fisica ed è lì che per la prima volta ho scoperto questa tecnica di diffusione dei neutroni che si fa in pochi centri specializzati al mondo. Oltre al centro vicino a Oxford, ce n’era uno a Grenoble e ce ne sono anche negli Stati Uniti, in Australia e in Giappone. Così è partita la mia carriera nel mondo della ricerca. Dopo, ho fatto un post-dottorato a Parigi all’Istituto Curie e sono arrivata all’ILL di Grenoble dove sono stata per venticinque anni. Questo centro per il momento è il migliore al mondo ma si pensa che un giorno l’ESS lo rimpiazzerà.
Hai una carriera doppia: come coordinatrice di strutture di ricerca e come ricercatrice tu stessa. Come sei riuscita a tenere insieme i due ruoli?
L’ILL è un posto dove un po’ da tutto il mondo vengono scienziati per fare degli esperimenti e trovano persone che li aiutano nel loro lavoro, collaborano, “mantengono” le macchine ecc. Io ho cominciato come responsabile di una di queste macchine. Poi ho fatto un salto di carriera e mi sono occupata di un partenariato con un altro Istituto europeo che è a Grenoble, un sincrotrone, Esrf, per potenziare studi di sistemi di materia soffice, come i polimeri, gel, tensioattivi, lipidi e così via. Dal 2015 sono stata a capo di un gruppo di una sessantina di persone fra scienziati, tecnici, amministrativi e studenti e nel frattempo ho continuato a portare avanti, in collaborazione con scienziati di tutto il mondo, un programma di ricerca sulla struttura di membrane biologiche e l’interazione con medicinali, proteine antibiotici.
Adesso sei passata a questo centro di Lund che ha l’ambizione di diventare il nuovo punto di riferimento in Europa per questi studi. Questa affermazione femminile è costata molta fatica?
Non lo so. Molta determinazione, molta buona volontà. A Grenoble, per vent’anni, ho militato in Parité Science, un’associazione per la parità nelle scienze con la quale ho organizzato vari colloqui, fiere e interventi nelle scuole. È stata una partecipazione che mi ha aperto un po’ gli occhi. All’inizio, come spesso capita anche alle mie colleghe, pensavo: “Ho fatto la mia carriera, non ho subito discriminazioni”. Non vedevo il problema della mancanza di parità e non mi accorgevo di come spesso per riuscire in questa doppia carriera ci si deve mascolinizzare un po’. Fare una vita come se tu fossi un maschio. Ho due figli e mi è capitato spesso di incontrare persone che mi dicevano: “Oh, non avrei immaginato!”. I due figli non si vedevano, non ostacolavano il mio lavoro anche se dovevo partire di frequente e dovevo lavorare di sera o nei weekend come tutti quelli che fanno il mio lavoro. Ma anzitutto questi bambini avevano un padre e poi ci si organizza. I miei figli sono andati nei centri giochi. Non bisogna necessariamente restare con loro tutto il tempo. Se il tempo che uno gli dedica è di una certa qualità, può funzionare. Parité mi ha aperto gli occhi e ho cominciato a intendere i discorsi sul soffitto di cristallo: non ci sono molte donne nei ruoli di dirigenza per tanti motivi, ma a volte sono anche le donne stesse che non osano lanciarsi. Hanno paura che il nuovo ruolo possa richiedere troppo tempo e mettere in difficoltà la famiglia. Un altro motivo è che, mentre gli uomini tendono a sopravvalutarsi, le donne sono più pragmatiche: non sono all’altezza di questo lavoro perché richiede effettivamente una serie di competenze e io non le ho tutte. Mentre il maschio si lancia, la donna è più frenata. Così, quando è capitata a me l’occasione, ho voluto lanciarmi. Ho provato, sono diventata prima group leader e adesso ho questo incarico di direzione. Mi sono domandata anche se la mia nomina sia stata almeno in parte conseguenza della forte richiesta di dare spazio e visibilità delle donne, ma in realtà la competenza io ce l’ho e, quando mi hanno nominato, la reazione di tutti – ne sono orgogliosa – è stata di contentezza. Le persone erano contente di vedermi qui e pensano che potrò fare bene. Cosa che mi mette un po’ di pressione perché l’impresa è davvero difficile. C’è stato un finanziamento molto grosso, per vari motivi ci sono stati dei ritardi ma ora tutto deve funzionare.
Dalla ricerca di cui ti occuperai qui in Svezia possiamo aspettarci applicazioni importanti oppure è ancora una ricerca di base, teorica?
È quella che si chiama ricerca fondamentale: cerchi di capire quali sono i meccanismi che stanno dietro le cose, a livello atomico e molecolare. Poi c’è sempre più pressione per mostrarne l’utilità. Per esempio, durante la pandemia ci hanno chiesto di renderci utili per capire – è quello che faccio io – il meccanismo di interazione del virus con le membrane, come entra all’interno della cellula, con l’idea che, se lo si capisce, poi si possono immaginare medicinali che possano bloccare questa diffusione. Ci hanno consentito di andare in laboratorio durante il confinamento e siamo riusciti a pubblicare qualche risultato. Abbiamo anche un uso industriale delle nostre macchine e alcune imprese hanno fatto misure da noi sulle strutture che utilizzano per i vaccini. Abbiamo programmi abbastanza spinti sulle batterie: energia, ambiente, salute sono le parole chiave attorno alle quali ruota il nostro lavoro, ma la nostra è soprattutto ricerca fondamentale. Rispetto ai miei colleghi italiani che devono passare molto del loro tempo a compilare grant applications per ottenere fondi che paghino uno studente o una macchina, qui siamo più fortunati perché le nostre strutture sono ricche. E questo – stipendi migliori, sicurezza nei finanziamenti, serenità nel lavoro – è anche uno dei motivi per cui ci sono tanti italiani all’estero. Si tratta di un vero e proprio disastro per il nostro sistema pubblico: le tasse degli italiani ci hanno portato alla laurea e adesso io compro casa in Francia, pago le tasse in Francia, non restituisco nulla al Paese che mi ha formato. Quando mi è arrivata la possibilità di fare il dottorato a Oxford, mi dicevo: “Ma sì, Oxford è prestigiosa, imparo bene l’inglese, poi torno e trovo un lavoro”. I colleghi del Dipartimento mi rispondevano: “Guarda che se parti, non torni più. Una volta che avrai visto come funziona lì, non vorrai più tornare”. Hanno avuto ragione. Però sogno sempre di tornare. Amo molto la Toscana e se non ci fosse stata questa grande tentazione svedese ora forse sarei lì. Ma mi sa che farò come tutti i migranti che si rispettano: tornerò con la mia pensione al paesino…
Torniamo all’osservazione che hai fatto sul ruolo che la pressione esterna gioca nel dare visibilità alle donne. Va d’accordo con alcuni esempi che vengono da altri Paesi, come la Germania.
La Germania è stata per me una delusione. Angela Merkel ha cercato di migliorare la situazione ma all’epoca mi aveva meravigliato scoprire che in Germania (come in Svizzera) la donna quando faceva un figlio doveva stare a casa perché altrimenti era vista male. Ma così si rallenta la carriera. Venendo dal Sud dell’Italia pensavo “Noi siamo in uno dei posti peggiori” ma poi mi sono resa conto che non è affatto vero. Anche la Francia potrebbe fare molto di più visto che ha servizi sociali molto avanzati: io ho potuto fare in Francia quello che con due bambini non avrei potuto fare senza i nonni in Italia ma, ciononostante, la situazione delle donne non è molto migliore. Soprattutto nelle scienze, le ragazze non sono interessate. Le facoltà scientifiche, a parte biologia e chimica che sono percepite come più accessibili, vedono davvero poche ragazze fra i loro studenti.
Hai parlato del Sud d’Italia. Quanto ha inciso la tua famiglia d’origine sul tuo modo di affrontare questi problemi?
Vengo da una casa dove eravamo quattro sorelle e una mamma molto presente, un vero punto di riferimento. Avevamo anche una nonna che è stata con noi per tantissimi anni e aveva un carattere molto forte, molto dominante. In casa non c’è stata distinzione fra quello che chiedi a una ragazza e quello che chiedi a un ragazzo: nessuno mi ha mai detto che non ero capace.