La parola robot, oltre che nei racconti di fantascienza, viene impiegata per descrivere oggetti della nostra vita reale e quotidiana ed è tutto sommato relativamente recente: è stata utilizzata per la prima volta nel 1920 in una pièce teatrale intitolata R.U.R. (Rossumovi univerzální roboti), cioè I robot universali di Rossum dello scrittore ceco Karel Čapek. Robot non è propriamente una parola ceca ma un termine inventato volgendo al maschile il termine femminile robota che indica un lavoro pesante. Non a caso, nel dramma di Čapek i robot sono umanoidi creati per sostituire gli uomini in tutti i possibili lavori senza che questo preluda ad alcuna nuova età dell’oro. R.U.R. può essere descritta come una delle utopie negative proposte dalla letteratura e dalla cinematografia degli anni fra le due guerre mondiali. Basti pensare al film Metropolis di Fritz Lang che nel 1927 rifletteva sulle condizioni di lavoro disumane nelle fabbriche e sulla vita miserevole della classe proletaria opposta agli agi e al lusso di quelle dominanti. L’opera di Čapek fu un successo planetario e i robot iniziarono a popolare romanzi, racconti e film di ogni genere: dai celebri robot di Isaac Asimov, ai droidi di Guerre Stellari fino ai replicanti di Philip Dick portati sullo schermo da Ridley Scott in Blade Runner. Ma siamo così sicuri che il topos letterario di sostituire lavoratori umani con lavoratori artificiali sia solo un riflesso novecentesco? Prendiamo un altro termine che pare sinonimo di robot, vale a dire automa. Ebbene, anche questo termine ha un’origine letteraria, ma ben più remota degli inizi del Novecento, visto che viene attestato per la prima volta nell’Iliade! Il verso 749 del quinto libro del grande poema omerico parla di porte che si aprono da sole (automatai pylai), letteralmente porte automatiche: si tratta delle porte della sala degli dèi, che al passaggio delle divinità (Era, in questo caso) si aprono per farle passare, un po’ come succede con molte porte di uffici, alberghi e altri luoghi cui siamo oggi così abituati da non farci più caso. L’ingegnere che aveva progettato queste porte automatiche era stato niente meno che Efesto, che noi ci figuriamo come il fabbro degli dèi, ma che ne era a tutti gli effetti l’ingegnere capo in grado di progettare meccanismi automatici che non si limitavano alle porte ma contemplavano anche tripodi su ruote che si muovevano autonomamente. Questi esempi ci sembrano estremamente familiari, e lo sono, perché l’automazione di meccanismi è ormai pervasiva nella tecnologia moderna e la diamo per scontata. A ben vedere si tratta della caratteristica fondamentale dei robot, vale a dire reagire autonomamente a uno stimolo ambientale. Nel caso delle nostre porte automatiche è un sensore che rileva la presenza di un passante e fa scattare il meccanismo automatico. Nel caso di robot più sofisticati, come quelli usati nelle fabbriche, stimoli diversi danno luogo a reazioni diverse. Efesto è citato varie volte da Omero e dai suoi epigoni: nell’ottavo libro dell’Odissea si descrive il meccanismo che monta sul suo letto nuziale per intrappolare la sposa Afrodite e l’amante Ares, intenti a tradirlo. All’ingegnoso dio zoppo si deve anche la creazione di animali meccanici che si muovevano spontaneamente, come cani e cavalli. L’idea di automa nell’immaginario greco è quindi in principio del tutto simile all’idea di robot nell’immaginario moderno: un essere meccanico che riesce a interagire con l’ambiente e muoversi in modo autonomo. Mezzo millennio dopo l’epoca di Omero, Apollonio di Rodi ci parla nelle Argonautiche, l’unico poema dell’epoca ellenistica a noi pervenuto, del colosso di Creta, una enorme statua in bronzo creata sempre da Efesto che la donò al re Minosse (sì, quello del Minotauro), il quale la pose a guardia dell’isola. Quando gli Argonauti, guidati da Giasone, sbarcarono sull’isola di Creta, non tardarono a scontrarsi con il gigantesco automa, di nome Talos, che per statura ricorda un po’ i robot di certi anime giapponesi degli anni Ottanta (chiamati mecha), e che era invulnerabile se non in un punto della caviglia, dove infatti uno degli argonauti lo colpirà facendolo “morire”. La tipologia di robot cui fanno riferimento questi miti è quella dell’androide, altra parola di etimologia greca, cioè un simulacro umano. La parola è molto più recente, utilizzata per la prima volta nel 1886 dallo scrittore francese Auguste Villiers de l’Isle-Adam nel suo romanzo L’Eva futura, neanche quarant’anni prima di R.U.R. La fantascienza se ne è appropriata a partire dalla sua epoca d’oro, gli anni fra le due guerre mondiali, e in molti film si parla di androidi e non robot, a porre l’accento su creature che non sono palesemente meccaniche ma fatte a immagine e somiglianza dell’uomo. In questa categoria possiamo anche annoverare il mostro creato dal barone von Frankenstein nel capolavoro di Mary Shelley del 1817. Per ironia della sorte, anche i primi robot propriamente detti, quelli di Čapek, non erano creature metalliche ma organiche. Invece, nel mondo antico si parla di automi o, come nel caso di Talos, di “colossi”. Esattamente come per il colosso per antonomasia, quello di Rodi, o per la perduta statua colossale di Nerone in veste del dio Sole che un tempo era prospiciente al Colosseo (da qui il nome) e così alta da poter “guardare dentro” l’anfiteatro. Un’altra fondamentale differenza fra gli automi del mondo classico e quelli del mondo moderno è che i primi non si ribellano, mentre i secondi lo fanno sistematicamente. Il ruolo che ai robot è assegnato nella letteratura moderna è in realtà quello che avevano gli schiavi nel mondo antico. Nel primo libro della Politica, Aristotele osserva esplicitamente che, se fosse possibile costruire e utilizzare automi come quelli che il mito attribuiva a Dedalo ed Efesto, non ci sarebbe stato bisogno di schiavi. Nel mondo classico sono infatti gli schiavi a ribellarsi e tentare la fuga, non le macchine. Invece, gli automi del Novecento, dai robot di R.U.R. ad Hal 9000 di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick e a moltissimi altri, sono perennemente sull’orlo della ribellione agli uomini, che è un riflesso letterario del timore da parte dei padroni della ribellione degli schiavi prima e dei lavoratori dopo. Non è un caso che un film che tratta il tema dell’automazione e dell’alienazione, Tempi moderni di Chaplin (1936), mostri da un lato la disumanizzazione delle catene di montaggio fordiste, con la contingentazione dei tempi portata all’estremo nella scena in cui l’operaio viene nutrito da una macchina automatica, che infatti si guasta con gran effetto comico, e dall’altro le ribellioni degli operai nelle quali Charlot viene inconsapevolmente coinvolto. Veniamo qui a un altro concetto chiave della moderna robotica, un concetto non a caso formalizzato negli anni della seconda guerra mondiale: la cibernetica. Il termine viene dal greco kybernetes che vuol dire timoniere, pilota di navi ed è stato coniato dal grande matematico Norbert Wiener, i cui contributi vanno dalla matematica pura (come la teoria generalizzata di Fourier e il calcolo stocastico utilizzato nella teoria quantistica dei campi e nella finanza) a questioni applicative. Wiener si era interessato al problema di governare un sistema, artificiale o naturale che fosse, e la cibernetica è la sua “teoria del controllo”. Una collezione di metodi matematici che consentono di governare in una certa misura gli organismi sia naturali che artificiali e in particolare permettono il controllo dei robot che dovrebbe impedire loro di fare ciò che non vogliamo che facciano. Un primo esempio di teoria del controllo era stata la teoria con cui James Clerk Maxwell nel 1868 aveva descritto matematicamente come regolare la stabilità delle macchine a vapore, una questione fondamentale per la rivoluzione industriale. Ottant’anni dopo, Wiener e i suoi collaboratori fornirono esempi molto generali di sistemi di controllo, che cercarono di applicare anche a sistemi biologici e medici: l’idea fondamentale era che un tale sistema potesse interagire con l’ambiente in modo da causare conseguenze che poi ricadevano anche su lui stesso, la cosiddetta “retroazione” (feedback). Il controllo di questa retroazione, soprattutto la sua stabilità nel lungo periodo, era uno degli scopi della cibernetica. Non a caso, il titolo del capolavoro di Wiener, pubblicato nel 1948 e che ha reso popolare questa teoria, è La cibernetica: controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina. Queste idee confluirono in seguito nel campo dell’intelligenza artificiale, dove i sistemi di controllo sono forniti da algoritmi di ottimizzazione numerica che hanno lo scopo di minimizzare l’errore nella risposta di un sistema all’ambiente che lo circonda. In altri termini, questi sistemi apprendono come comportarsi al meglio nel proprio ambiente, cioè in qualche senso imparano a stare al mondo. Si tratta di quel che oggi chiamiamo machine learning. Questi sistemi, che oggi usiamo anche per tradurre da una lingua all’altra o per farci consigliare acquisti da un sito di e-commerce, hanno una capacità predittiva: Wiener l’aveva studiata nei sistemi di puntamento dei missili della contraerea, che dovevano capire dove sparare il missile per intercettare l’incursore nemico, e la predittività è proprio una delle caratteristiche degli algoritmi e dei sistemi di intelligenza artificiale. Ma questo ai nostri antenati del mondo classico non serviva. Oracoli e aruspici bastavano a soddisfare le loro necessità così come la presenza degli schiavi rendeva gli automi creature degne di essere cantate dai poeti più che costruite dagli artigiani.