Le tensioni tra India e Cina spiegate con la teoria dei giochi

Le incursioni militari di Pechino sul confine nord dei rivali non solo continuano a ripetersi, ma sono tutt’altro che “accidentali” e seguono una strategia coerente volta a garantire al Dragone il controllo di quella regione. Uno studio internazionale spiega come

A studiarle senza i dovuti strumenti di analisi, le incursioni militari che di tanto in tanto la Cina compie in territorio indiano potrebbero apparire il frutto di quei quasi “fisiologici” andirivieni di truppe e mezzi che caratterizzano tanti confini contestati nel mondo. Certo preoccupanti, ma tutto sommato “ordinaria amministrazione” dove la tensione corre tra due Stati in contrasto pluridecennale per il possesso di determinati territori. E, invece, l’occhio della teoria dei giochi ha permesso di scoprire qualcosa di più: che, in effetti, sotto l’occultamento di una apparente “casualità” si cela un disegno espansionistico ben preciso da parte del Dragone, condotto con metodo e costanza e che alla lunga rischia di acuire la conflittualità tra due dei principali giganti nucleari del Pianeta.
Un nuovo studio pubblicato su PLoS ONE – che ha visto la teoria dei giochi entrare a gamba tesa nel campo dell’analisi geopolitica – ha infatti permesso di scoprire che le incursioni militari della Cina sul confine nord dell’India non solo continuano a ripetersi, ma sono tutt’altro che “accidentali” e seguono – come detto – una strategia coerente volta a garantire a Pechino il controllo di quella regione.
Il confine tra India e Cina ha vissuto conflitti ricorrenti ed è considerato la linea di contesa tra Stati più lunga del mondo. Si tratta di una zona ricca di riserve minerarie e nel settore tale è situato uno dei più grandi giacimenti di zinco-piombo del mondo. In più, la linea di contatto attraversa anche zone di interesse relative allo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Tutto questo senza contare diverse caratteristiche strategico-militari di primaria importanza di quella parte del globo. Curiosamente, in un momento in cui svariati commentatori (non si sa quanto a proposito) formulano paragoni tra la situazione attuale nel teatro europeo e la crisi dei missili di Cuba, pochi ricordano che proprio in quel “vivace” 1962 le forze armate cinesi e indiane “vennero alle mani” in modo aperto anche se per un breve periodo.
Nel corso degli anni a seguire, i due Paesi hanno firmato diversi accordi bilaterali, un processo che è culminato nel 2005 in un protocollo volto a sviluppare un partenariato costruttivo e a lungo termine, in attesa di una risoluzione definitiva del conflitto. In particolare, i due colossi asiatici avevano concordato di non usare la forza né di minacciare di usarla l’uno contro l’altro. Tuttavia, da allora, la relazione si è deteriorata per diversi motivi. Il surplus commerciale di cui l’India godeva fino al 2005 si è trasformato in un deficit multimiliardario, che ha creato forti correnti sotterranee di sfiducia. Inoltre, la Cina ha notevolmente aumentato sia le sue spese militari che il suo sostegno militare al Pakistan, provocando un alto grado di preoccupazione in India. Dettaglio da non sottovalutare è lo status di potenza nucleare dei due Stati. La Cina e l’India possiedono entrambe armi nucleari, sebbene aderiscano a una politica di non primo utilizzo e il rischio di un’escalation nucleare sembri minimo. Tuttavia, la tensione potrebbe degenerare comunque con l’uso di missili convenzionali. Gli esperti hanno anche sottolineato che questi armamenti convenzionali sono collocati insieme ai missili nucleari e che è difficile distinguere tra i due.
Il rischio di escalation nucleare è quindi minimo, ma non del tutto trascurabile. Tra rivendicazioni reciproche e conflittualità più o meno aperte, insomma, lo status quo appare tutt’altro che stabile.
Ne è conferma lampante quanto accaduto il 15 giugno 2020 quando una pattuglia indiana e una pattuglia cinese si sono scontrate nella valle del fiume Galwan, un’area contesa lungo il confine. Le pattuglie erano disarmate secondo gli accordi bilaterali, ma i soldati hanno usato sassi e bastoni provocando la morte di 20 soldati indiani e di un numero imprecisato di soldati cinesi (il governo cinese ha riferito di 4 morti, mentre la rivista Time ne ha stimati 35).
Subito dopo lo scontro, entrambe le parti hanno cercato di ridurre la tensione attraverso cicli di colloqui, aumentando però nel frattempo la loro presenza militare. Nel 2021 hanno deciso di ritirare le loro truppe da una serie di zone rosse e il numero di incursioni è sembrato diminuire. Cionondimeno la tensione è rimasta alta. Nel tempo, le incursioni hanno teso a ripetersi in due regioni distinte: l’Aksai Chin, una regione a nord del Nepal controllata dalla Cina ma rivendicata dall’India, e l’Arunachal Pradesh, una regione a est del Bhutan controllata dall’India ma rivendicata dalla Cina.
Ai fini dello studio pubblicato su PLoS ONE, i ricercatori della Delft University of Technology nei Paesi Bassi, della Northwestern University, USA, della Princeton University, USA, della Netherlands Defence Academy, ancora nei Paesi Bassi, e infine del Dartmouth College, Usa, hanno definito “incursione” qualsiasi movimento di truppe cinesi attraverso il confine – a piedi o con veicoli – in aree che sono internazionalmente riconosciute come territorio dell’India. Sulla base di questa definizione hanno raccolto un set di dati che fa riferimento al periodo che va dal 2006 al 2020, applicando poi a questi stessi dati la teoria dei giochi e diversi metodi statistici per un’analisi delle incursioni. Risultato: nel periodo considerato non solo c’è stata una crescita del numero di incursioni in territorio indiano, ma gli autori hanno concluso che non si è trattato di situazioni “accidentali” o scollegate tra loro, ma di una vera e propria strategia coordinata da parte del Dragone con fini espansionistici.

 

“La probabilità di casualità è molto bassa – ha affermato V.S. Subrahmanian della Northwestern, autore senior dello studio – e ci suggerisce che si tratti di uno sforzo coordinato. Va però precisato che per il settore orientale del confine ci sono prove molto meno consistenti di un coordinamento”.
Nel set di dati di 15 anni, i ricercatori hanno notato una media di 8 incursioni all’anno. Le stime del governo indiano, tuttavia, sono molto più alte, fino a raggiungere la cifra di circa 300 all’anno. “Sebbene il governo indiano abbia reso pubblici questi dati – ha aggiunto Subrahmanian – non abbiamo potuto disporre dei dettagli alla base di tali stime. Potrebbero aver contato una serie di eventi temporalmente prossimi come incursioni indipendenti, mentre noi li abbiamo contati tutti come parte della stessa incursione. Ma quando abbiamo tracciato su un grafico i nostri dati e i loro, le curve hanno presentato comunque la stessa forma. Entrambe mostrano che le incursioni sono aumentate, ma non costantemente. Salgono e scendono, pur continuando a tendere verso l’alto”.
Sebbene i principali “punti caldi” per le incursioni siano concentrati tanto nell’Aksai Chin che nell’Arunachal Pradesh, l’analisi basata sulla teoria dei giochi dei ricercatori ha segnalato solo le incursioni in Aksai Chin come parte di uno sforzo coordinato. Basandosi sempre sulla teoria dei giochi, i ricercatori hanno concluso che  la Cina ha cercato di stabilire un controllo permanente sull’Aksai Chin assegnando più truppe per un periodo di tempo più lungo rispetto all’India. “La Cina si impossessa di un po’ di territorio e poi ancora di un po’, finché l’India non accetterà che si tratti di territorio cinese”, ha detto Subrahmanian.
“C’è un detto: ‘Mantieni la pentola in ebollizione ma non lasciarla traboccare’. La Cina prende diversi piccoli pezzi di terra alla volta, ma tiene la sua espansione sotto la soglia della linea che porterebbe l’India a contrattaccare. Il punto è che, poco alla volta, il territorio occupato è diventato più grande”.
“Che ci siano più incursioni nel settore occidentale comunque non è una sorpresa – ha proseguito Subrahmanian – perché l’Aksai Chin è un’area strategica che la Cina vuole sviluppare, quindi è un’area critica per loro. È un passaggio vitale tra la Cina e le regioni autonome cinesi del Tibet e dello Xinjiang”. In un articolo precedente (pubblicato da Nature Humanities and Social Sciences Communications nel 2021), Subrahmanian e i suoi collaboratori hanno valutato quando è più probabile che si verifichino le incursioni.
Hanno scoperto che la Cina attacca quando si sente più vulnerabile. “Abbiamo riscontrato un aumento delle incursioni quando la Cina vive un periodo di stress economico”, ha affermato Subrahmanian. “Così come sono più probabili le incursioni quando l’India si avvicina agli Stati Uniti”. Sulla base dei risultati di analisi ottenuti, Subrahmanian e i suoi colleghi sperano che la tensione possa essere affrontata in futuro con maggiore cognizione di causa. Ritengono che gli interventi militari dovrebbero essere l’ultima risorsa. Invece, suggeriscono negoziati bilaterali sviluppando sistemi di allerta precoce per prevedere quando potrebbero verificarsi le incursioni o un programma di rafforzamento dell’economia indiana per sfidare il dominio economico della Cina. “Una economia cinese solida si traduce in una maggiore aggressività in tutto il mondo”, ha detto Subrahmanian. “Nessuno vuole una guerra, non solo in termini di vite umane, ma in termini di effetti economici a catena. Sarebbe uno tsunami economico”. Sfortunatamente, i recenti sviluppi indicano che la Cina sta compiendo passi nella direzione sbagliata. Cina e Bhutan hanno firmato un accordo bilaterale per risolvere la disputa sull’altopiano di Doklam, escludendo l’India. I media cinesi hanno presentato questo accordo come un affronto al governo indiano, il che non è di buon auspicio. Se la Cina perseguirà questo approccio, ciò potrebbe portare a un peggioramento del conflitto, lasciando come unica opzione per l’India una forte alleanza militare con i Paesi AUKUS, il patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti.

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