Gli anni Sessanta del secolo scorso vedono in Italia un singolare crocevia tra scienza, tecnologia e sviluppo industriale. Non ci sono insomma solo l’Olivetti, il passaggio dalla valvola ai transistor, la tecnologia dei semiconduttori, i primi computer e la nascente industria informatica di cui si parla in queste pagine della rivista, in occasione dei 60 anni dalla morte di Mario Tchou. Nello stesso periodo si sviluppa in Italia una significativa industria farmaceutica: all’Istituto superiore di sanità, guidato da Domenico Marotta, che fa dell’Italia uno dei primi tre produttori di penicillina, lavorano due premi Nobel: Ernst Boris Chain (premio Nobel per la medicina nel ‘45) e Daniel Bovet, Nobel nel ‘57 proprio per il lavoro svolto a Roma. L’uso pacifico delle acquisizioni della fisica nucleare figura tra le vie scelte dal nostro Paese per il suo sviluppo; il Cnen è l’istituto a cui è affidata la politica della ricerca nucleare e lo dirige Felice Ippolito che, anche in questo caso, porta l’Italia al terzo posto tra le nazioni produttrici di energia di origine nucleare. Poi c’è Enrico Mattei sostenitore di una nostra via, nazionale, al petrolio con il conseguente sviluppo di tutto un settore di ricerche applicate. Nel ‘63 Giulio Natta vince il premio Nobel per la chimica con una plastica economica e resistente, il Moplen, divenuta subito popolare oggetto di consumo e che, assieme a quello del chimico italiano, porta i nomi del Politecnico di Milano e della Montecatini. Sembravano, queste storie, le colonne portanti di uno sviluppo duraturo perché fondato sulla ricerca e sulle “passerelle” create per far interagire la ricerca scientifica, la tecnologia e i settori produttivi ad alto contenuto tecnologico. È invece una speranza che naufraga nel giro di pochi anni. Nel ‘62, con la misteriosa morte di Mattei nell’incidente aereo di Bescapè, perde decisamente quota l’ipotesi di una via nazionale all’estrazione e al commercio del petrolio. Nel ‘63 l’arresto di Ippolito, con l’accusa di gravi illeciti amministrativi, decreta la crisi del nucleare italiano e di un altro tentativo di perseguire una politica energetica più autonoma da parte del nostro Paese. L’anno successivo, un altro scandalo politico colpisce l’opinione pubblica: sempre con l’accusa di illecito amministrativo, viene arrestato Marotta e l’evento avrà pesanti ripercussioni sull’Istituto superiore di sanità, la ricerca e l’industria farmaceutica. Nel frattempo, il 27 febbraio 1960, era morto Adriano Olivetti e il 9 novembre 1961 è il giorno dell’incidente stradale di Mario Tchou. Una serie di eventi negativi che, di fatto, disegneranno dell’Italia un profilo diverso da quello auspicato.
MARIO TCHOU E MAURO PICONE al crocevia del calcolo
Quando guardiamo alla storia del calcolo automatico, sembra che ad un certo punto ci sia un salto incredibile in avanti concentrato nello spazio di pochissimi anni. Mauro Picone, matematico, fondatore e primo direttore dell’Istituto (Nazionale) per le applicazioni del calcolo del Consiglio nazionale delle ricerche (allora Inac, oggi Iac), dovette per anni far lavorare il suo gruppo con strumenti sempre meno adeguati alle nuove esigenze scientifiche e tecnologiche. Negli anni ‘30, la risoluzione di semplici sistemi di equazioni lineari di 10 equazioni in 10 incognite poteva richiedere fino a una settimana di lavoro di due impiegati muniti di calcolatrici elettriche (oggi ci vuole una frazione di millisecondo sul vostro computer di casa, se sapete come fare). Alla fine della seconda guerra mondiale, Picone venne presto a conoscenza dei tentativi degli scienziati americani e inglesi di costruire dei calcolatori digitali programmabili e iniziò un lungo percorso per riuscire ad avere questi nuovi potenti strumenti per il suo istituto.
E fu così che Adriano Olivetti cominciò a interessarsi ai nuovi calcolatori. All’inizio degli anni Cinquanta, dopo alcune missioni esplorative negli Stati Uniti, Picone si rivolse direttamente a lui con l’idea di creare un calcolatore elettronico italiano. Si formò un gruppo di lavoro misto, composto da universitari, matematici, fisici e ingegneri della Olivetti, per studiare i progressi americani e formulare nuove proposte di calcolatori. Purtroppo, nonostante la disponibilità di Olivetti per finanziare fino al 50% il costo di questo nuovo calcolatore (si parlava di centinaia di milioni di lire dell’epoca, corrispondenti a vari milioni di euro di adesso) e il supporto di Picone e del fisico Edoardo Amaldi, il Cnr dell’epoca decise di non finanziare questo progetto e l’Inac fu costretto qualche anno dopo ad acquistare un calcolatore prodotto in Gran Bretagna dalla ditta Ferranti, quello che poi sarebbe stato chiamato la Finac.
Fortunatamente però le collaborazioni tra l’Olivetti e l’Inac non si interruppero. Anzitutto, ci fu una specie di passaggio del testimone quando Giorgio Sacerdoti, già protagonista dell’installazione della Finac, entrò nel 1956 a far parte del Laboratorio Ricerche Elettroniche della Olivetti a Pisa, dove si stava lavorando al nuovo progetto ELEA, diventando responsabile del sistema e del software. Ma più direttamente c’è uno storico incontro, tenutosi il 21 giugno 1961, tra Mario Tchou e Mario Picone, in cui si decise di realizzare un nuovo computer scientifico per l’Inac, da cui avrebbe preso il via la nuova serie Elea 9004. Come risulta dalla corrispondenza trovata nel nostro Archivio storico, pochi giorni dopo l’incontro, avuta l’approvazione da Ivrea, Tchou confermò al nuovo direttore dell’Inac, Aldo Ghizzetti (che era subentrato nella direzione a Picone, rimasto come Presidente), che il calcolatore rientrava nei piani della loro progettazione e sarebbe stato sviluppato a Borgolombardo con la partecipazione di due dipendenti Inac, Paolo Ercoli per la parte tecnica e Dino Dainelli per quella matematica. Si trattava di un computer che era pensato per la programmazione nel linguaggio ALGOL e si chiamava di volta in volta, nella corrispondenza, Elea 9004 oppure Cinac (Calcolatore dell’Inac).
La morte improvvisa di Tchou interruppe lo sviluppo completo del progetto, che andò avanti in modo rallentato per vari anni, sotto la guida di Sacerdoti, fino al collaudo della Cinac avvenuto nel febbraio del 1963. Nel frattempo, l’Olivetti aveva ceduto il settore elettronico alla General Electric, e questo portò alla mancanza dei compilatori nel linguaggio PALGO, derivato dell’ALGOL. Il problema venne risolto in modo originale, utilizzando una console di simulazione della vecchia Finac, uno strano ibrido che faceva da ponte e da legame tra il vecchio e il nuovo, e fu un pezzo unico, chiamato per questo Elea 9104, che iniziò a lavorare a pieno regime solo nel 1966. Alla fine degli anni Sessanta, anche il Cinac venne smantellato e oggi è possibile vederlo esposto presso il Museo degli Strumenti di Calcolo di Pisa.
A tanti anni di distanza, nonostante molti documenti e testimonianze siano stati conservati e valorizzati, è difficile calarsi pienamente nell’atmosfera di quei giorni di frenetico progresso. Speriamo che la storia visiva, di cui avrete un assaggio nelle prossime pagine, abbia il potere di farvi immaginare meglio quei momenti così importanti.
CON LA CEP NACQUE L’INFORMATICA ITALIANA
È sempre difficile parlare delle date di nascita di un fenomeno sociale o di una tecnologia o indicare quegli eventi che ne segnano una svolta epocale. Almeno per l’informatica italiana, possiamo però con certezza affermare che il 1961 è stato un anno di profondi cambiamenti. La storia che termina con l’inaugurazione della Calcolatrice elettronica pisana, per tutti “la Cep”, il 13 novembre e la scomparsa pochi giorni prima di Mario Tchou, geniale ingegnere Olivetti, affonda le radici in un decennio di rapida trasformazione, nel quale il boom economico che attraversa il nostro Paese permette la realizzazione di imprese che con il tempo assumono contorni quasi epici.
Il progetto che portò alla realizzazione della Cep fa parte del mito fondativo dell’informatica italiana. L’antefatto è presto detto: l’università di Pisa si trova a metà anni Cinquanta con un finanziamento importante da parte delle istituzionali locali pensato inizialmente per la realizzazione di un acceleratore di particelle. Fallita l’iniziativa, per trovare una nuova destinazione ai fondi, nell’agosto del 1954 alcuni professori dell’ateneo toscano, fra i quali Marcello Conversi, futuro protagonista del progetto, chiesero consiglio a Enrico Fermi, approfittando di quella che sarebbe stata la sua ultima visita in Italia alla Scuola internazionale di fisica di Varenna. Lo scienziato suggerì di investire nella costruzione di un calcolatore elettronico e scrisse in proposito al rettore di Pisa, Enrico Avanzi. Fermi sapeva dell’iniziativa dell’Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo di Roma (oggi Iac) per l’acquisto di una macchina inglese prodotta da Ferranti e la cita nella lettera. Può darsi fosse a conoscenza che il Politecnico di Milano ne stava acquisendo una dalla californiana Computer Research Corporation. Ciononostante, invitava i ricercatori pisani a cimentarsi nell’impresa. A ottobre del 1954 fu approvata la nuova destinazione dei finanziamenti e nel marzo successivo fu costituito il Centro studi sulle calcolatrici elettroniche (Csce) il quale, con personale assunto sia dall’Università sia da Olivetti, iniziò a lavorare sul progetto della calcolatrice. All’impresa si era infatti affiancata ben presto la ditta di Ivrea, fornendo finanziamenti e personale. Nel contempo, sotto la guida di Tchou, fondava un proprio laboratorio a Barbaricina, appena fuori Pisa.
Per realizzare la Cep furono previsti quattro anni. Dopo il primo biennio venne messo in cantiere il completamento del nucleo centrale: si trattava di quella che sarebbe stata chiamata la “Macchina ridotta” e che a tutti gli effetti rappresenta il primo calcolatore costruito in Italia. La Cep fu invece terminata nei primi mesi del 1961, con circa un anno di ritardo rispetto al piano di lavoro. Benché attiva da alcuni mesi, venne ufficialmente inaugurata solo il 13 novembre. Il calcolatore rimase operativo per circa sette anni e fu soggetto a successive estensioni dal punto di vista software (come un compilatore per il linguaggio Fortran) e hardware (ad esempio, con la realizzazione di specifiche periferiche).
La Cep era una macchina notevole. Gli articoli di alcuni osservatori stranieri non mancarono di riconoscerne le caratteristiche più interessanti, fra le quali la micro-programmabilità e la velocità di calcolo. Tuttavia, quando la macchina fu completata, il mondo dell’informatica era radicalmente cambiato rispetto agli anni in cui l’impresa era stata concepita. Dal punto di vista tecnologico, i transistor avevano ormai soppiantato le valvole. Soprattutto stava mutando il modo di usare i calcolatori, che non erano più solo macchine per il calcolo numerico.
Anche in Italia le cose erano cambiate. Erano già stati installati numerosi calcolatori, almeno una ventina, quasi tutti di produzione straniera. Olivetti era inoltre avanti nel raccogliere i frutti della partecipazione al progetto Cep. Nel 1957, il laboratorio di Barbaricina aveva realizzato un primo prototipo, la “Macchina zero”, che sarebbe stata la base della serie ELEA. Due anni dopo, la ditta di Ivrea lanciava il suo primo modello, ELEA 9003, una macchina pensata soprattutto per le applicazioni commerciali, ma già nel 1961 aveva a listino ELEA 6001, come la Cep adatta per utilizzi scientifici. Soprattutto, entrambi i modelli Olivetti erano completamente realizzati utilizzando i transistor. Sul piano dell’avanzamento scientifico, altri centri avevano messo in cantiere nuovi progetti costruttivi e i ricercatori dello Iac e del Politecnico di Milano erano al lavoro per realizzare modifiche ed estensioni alle proprie macchine. A conferma ulteriore del fiorire di iniziative legate all’informatica, nel febbraio di quello stesso anno nasceva l’Associazione italiana per il calcolo automatico, l’attuale Aica, che vedeva fra i fondatori istituzioni e ditte protagoniste delle trasformazioni di quel periodo.
Ma il cambiamento culturalmente più rilevante è forse indicato dal fatto che ELEA 9003, “vestito” da Ettore Sottsass, fosse stato premiato nel 1959 con il Compasso d’Oro per il design industriale. In pochi anni il calcolatore, da oggetto di ricerca, era diventato un prodotto commerciale, accettato come componente dell’arredamento aziendale.
Enrico Fermi, nella sua lettera, aveva sottolineato che la nascente tecnologia del calcolo automatico sarebbe stata “un mezzo di ricerca di cui si sarebbero avvantaggiati, in modo oggi quasi inestimabile, tutte le scienze e gli indirizzi di ricerca”. A distanza di oltre mezzo secolo e protagonisti della profonda trasformazione che il digitale sta portando nelle nostre vite, non possiamo che concordare con le parole del fisico romano. Il progetto Cep ha rappresentato la chiave di volta sia dal lato commerciale, in virtù della partnership con Olivetti, sia scientifico, contribuendo a raccogliere quelle competenze e risorse umane che nel 1969 consentirono all’università di Pisa l’istituzione del corso di laurea in Scienze dell’informazione, allora l’unico in Italia e tra i primi in Europa.