AAA lavoratori cercasi. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si discute ampiamente di un paradosso dei tempi del COVID-19: al termine della più profonda ed estesa crisi economica che il capitalismo ricordi – quella del “grande lockdown” – le imprese non riescono ad assumere. Cioè, non trovano persone disposte a lavorare per le mansioni e alle condizioni richieste. I motivi di questo paradosso – che, come vedremo, è per molti versi solo apparente – sono tanti e tra questi hanno un ruolo anche le protezioni sociali che alcuni governi hanno garantito ai lavoratori lasciati in mezzo a una strada dalla pandemia: i sussidi, ritenuti “colpevoli” di un fenomeno simile ossia della difficoltà di reperire lavoratori, coprono in realtà da noi solo alcuni settori e qualifiche, in particolare il lavoro stagionale. Ci sono quindi altre cause alla radice del disallineamento tra domanda e offerta di occupazione e sono tutte riconducibili alla grande trasformazione che la pandemia ha portato anche nel mondo del lavoro: distruzioni, spostamenti, ricollocazioni, accelerazioni, divisioni, diminuzioni e incrementi. C’è chi ha mantenuto il posto di lavoro ma ha cambiato per sempre il posto del lavoro, con la diffusione dello “smart working”. Chi con il lavoro da remoto ha conquistato spazi di libertà e chi ne è schiavo e vittima. Chi ha passato mesi e mesi in cassa integrazione e chi non ha avuto neanche quella. Chi deve reinventarsi da capo la sua attività. Chi è stato licenziato con un messaggio su Whatsapp dalla sera al mattino. Una grande trasformazione, appunto, che chiede di essere indagata. Uno sguardo alla discussione in corso dalle parti del capitalismo anglosassone – dove tutto si muove più rapidamente, in un mercato del lavoro più flessibile e per molti versi crudele – può essere utile, per iniziare.
MANCANO I LAVORATORI…
I primi segnali sono arrivati dai dati dell’ufficio statistico del lavoro americano che, a fine giugno, ha fatto sapere che stava succedendo qualcosa di strano: il tasso di dimissioni volontarie dal lavoro nel settore privato si era impennato, raggiungendo il massimo da due decenni. Dati reali che confermavano una indagine campionaria fatta da Axios, secondo la quale una percentuale molto alta di americani (la forchetta del sondaggio è assai ampia: dal 25 al 40%) stava valutando la possibilità di lasciare il proprio lavoro. Commentando i dati dell’ufficio del lavoro, la rivista Quartz ha usato la seguente espressione: il mercato del lavoro è allo stesso tempo “troppo freddo e troppo caldo” per la presenza di forze contrastanti. C’è la ripresa economica ma le condizioni sono incerte: basta una nuova impennata dei contagi e si richiude. A livello internazionale, le catene del valore sono tutte spezzettate e le imprese cercano di ricostituirle. Dal canto loro, i lavoratori si trovano sì in difficoltà economiche – e questo potrebbe spingerli ad accettare qualsiasi offerta – ma al tempo stesso possono avere condizioni di maggiore forza contrattuale, per la presenza di sussidi pubblici o per la loro specializzazione, e decidere di aspettare un po’ e contrattare. Molti poi, avendo sperimentato la flessibilità del lavoro da casa, non vogliono tornare indietro e, se la loro impresa chiede di tornare in presenza, si guardano un po’ intorno per cercare qualcosa di meglio. A questo si aggiunge la riduzione di forza lavoro immigrata, per la limitazione dei viaggi internazionali e anche interni. Gli stessi argomenti sono usati in Gran Bretagna per spiegare quella che il Guardian definisce come “la più grave mancanza di lavoro dal 1997”, intendendo che le imprese non trovano lavoratori, non che i lavoratori non trovano occupazione. Nel caso inglese, si aggiunge anche l’effetto Brexit che fa mancare l’afflusso di tante persone che prima andavano a lavorare oltremanica dall’Unione europea senza ostacoli burocratici e adesso invece sono respinte.
… O MANCA IL LAVORO?
Visto dall’Italia, questo scenario può apparire lunare. Abbiamo recuperato, rispetto al periodo nero del primo lockdown, è vero. Ma ancora siamo al di sotto dei livelli pre-crisi e il prezzo più duro lo hanno pagato gli indipendenti e i lavoratori a termine e precari. Nel mondo dell’occupazione dipendente, poi, c’è l’effetto della cassa integrazione: nel 2020, ha certificato l’Istat, più di 6 milioni di lavoratori sono stati in cassa integrazione e a febbraio 2021 erano ancora 1,5 milioni. Le ore lavorate sono crollate e vedremo in questi mesi l’effetto lungo sull’occupazione, con le imprese che hanno recuperato la libertà di licenziare. La Banca d’Italia nel suo ultimo Bollettino economico traccia segnali di ripresa del mercato, ma dalla cronaca arrivano notizie sconfortanti, con le grandi società multinazionali che stanno ristrutturando e chiudono interi stabilimenti, come la Gkn a Firenze e la Timken a Brescia, ultime in ordine di tempo ad aggiungersi agli 85 tavoli di crisi aperti presso il Ministero dello sviluppo economico. Eppure, anche da noi agiscono le stesse forze che in modo più plateale si vedono nei casi americano e inglese: la grande trasformazione, appunto, e la nuova grande polarizzazione del mercato del lavoro.
Gli ammortizzatori sociali, estesi nel periodo del COVID-19 anche a settori e imprese prima non coperti, hanno agito da cuscinetto, mitigando l’impatto della crisi che altrimenti avrebbe portato a una devastazione sociale. A suo tempo, la loro azione è stata benefica ma ha anche messo in evidenza il ritardo del nostro sistema di protezione sociale, che non copre, o copre pochissimo, chi non ha contratti di lavoro a tempo indeterminato o non ha alcun contratto. Adesso, poi, bisogna far fronte all’impatto di più lungo periodo anche sui cosiddetti “garantiti”, che rischiano di perdere il posto se la loro azienda delocalizza: era così anche prima, ma adesso le delocalizzazioni possono essere spinte anche dalla volontà di avere le mani più libere in un mondo di grande incertezza. E anche da noi il mercato può essere al tempo stesso “freddo e caldo”, se si pensa alla storica insufficienza delle agenzie pubbliche del lavoro, alla loro difficoltà a far incontrare domanda e offerta, a orientare e formare e, così facendo, aiutare il ricollocamento dei lavoratori nei settori che sono già in ripresa.
VERSO UN SALARIO MINIMO
Di fronte a questa complessità, appare sbagliato “incolpare” i sussidi – come la cassa integrazione oppure, come da noi, soprattutto il reddito di cittadinanza – della scarsità di offerta di lavoro. Ma, anche ammesso che ci siano posti di lavoro che non si coprono perché per una fascia di persone è preferibile mantenere il sussidio di povertà piuttosto che accettare un lavoro retribuito allo stesso livello, occorre chiedersi: il problema è il sussidio o la paga troppo bassa che viene offerta? In un video ampiamente circolato in rete, si sente il presidente Biden consigliare ai datori di lavoro americani che cercano e non trovano lavoratori: “Pay them more”, “Pagateli di più”. Ricetta troppo semplice? Dalle parti dell’Ocse e persino del Fondo monetario internazionale non la ritengono tale, visto che si moltiplicano le raccomandazioni per l’introduzione, o l’innalzamento, del salario minimo legale (che in Italia non c’è).
IL LAVORO A DISTANZA
Le diseguaglianze sono cresciute con la pandemia, si dice spesso – ed è vero – pensando soprattutto alle condizioni di salute e di reddito. Ma sono cresciute anche le diseguaglianze legate allo status giuridico del lavoro – dipendente o autonomo o finto autonomo, a tempo indeterminato o a termine.
Ed è tornata in auge una vecchia diseguaglianza, quella che con terminologia novecentesca si definiva tra operai e impiegati. O, sarebbe meglio dire, tra chi deve svolgere il suo lavoro con le sue mani – o comunque con la propria presenza fisica – e chi può farlo dietro uno schermo e dunque è entrato nel nuovo mondo del lavoro da remoto. Nel secondo trimestre del 2019, gli occupati che lavoravano da casa erano il 4,6%. Nello stesso periodo del 2020, erano il 19,4%. La pandemia ci ha insegnato che questa condizione può essere migliore o peggiore, una liberazione o una nuova schiavitù; la differenza, come spesso succede, dipende dal genere (le donne in casa hanno anche maggior carico di lavoro familiare), dalla condizione sociale e abitativa, dai territori. Anche in questo caso, c’è un ritardo nelle regole e nei contratti da colmare rapidamente. In ogni modo, difficilmente si tornerà indietro, con un impatto enorme non solo sulla nostra concezione dell’occupazione che svolgiamo, sull’equilibrio vita-lavoro e sul potere di controllo sui nostri tempi; ma anche sulla vita delle città, dagli spazi urbani ai trasporti ai consumi. La grande trasformazione è appena cominciata.