Ora che il Parlamento si è insediato e ha cominciato i suoi lavori, rivedere con calma i dati delle elezioni fa impressione: Camera e Senato sono stati votati da una minoranza
“Libertà è partecipazione”, così cantava Giorgio Gaber qualche decennio fa. Ma, se andiamo a leggere i dati dell’affluenza alle ultime elezioni politiche che hanno determinato la composizione dei due rami del Parlamento per la nuova legislatura, ci accorgiamo di quanta acqua sia passata sotto i ponti. Il risultato di maggior impatto è stata infatti la grande astensione registrata: il 36,1% degli aventi diritto al voto ha disertato le urne. Si tratta della percentuale più alta dal 1948. L’Istituto Cattaneo, che da sempre si interessa di indagini politico-elettorali, ha prodotto un interessante studio che analizza la partecipazione al voto per aree geografiche: la regione più virtuosa è stata l’Emilia-Romagna con il 72% di affluenza, il fanalino di coda la Calabria con il 50,8%. Ma è evidente come tutto
il Mezzogiorno abbia dato il suo forte segnale di disinteresse con solo il 55,75% di votanti. Al Nord l’affluenza è poco oltre il 68% e al Centro (trainato dalle cosiddette “zone rosse”) siamo al 67%. Si è ben lontani dai dati di partecipazione alle più recenti tornate elettorali del 2006 e 2008, in cui aveva votato il 20% in più della popolazione.
La composizione del Parlamento risulta quindi meno rappresentativa. Se contiamo che nelle Camere legislative la maggioranza rappresenta, in tutto, poco meno del 44% dei voti validi, possiamo affermare che è una minoranza
di popolazione quella che ha indicato il governo delle istituzioni. Non c’è alcun dubbio che la regola principe della democrazia sia “se voti, conti” ma il Parlamento deve altresì, democraticamente, tener conto nel corso del suo operato di questa asimmetria tra Paese reale e istituzioni.
Un’altra parte della ricerca dell’Istituto Cattaneo, di carattere quasi fantapolitico, dimostra “collegi alla mano” che sarebbe bastata un’alleanza tra almeno due delle principali forze di opposizione “progressista” per rendere impossibile una maggioranza “della stessa parte” sia alla Camera che al Senato (addirittura alcuni scenari avrebbero previsto la vittoria delle attuali forze di opposizione).
Ma in merito alla partecipazione c’è un altro studio di Marco Valbruzzi, docente di scienze politiche alla Federico II di Napoli, che riscala il numero di voti validi. Da una parte il dato del 63,9% di votanti comprende anche le schede bianche e nulle che però non rientrano nel computo per l’attribuzione dei seggi parlamentari e dall’altra è riferito solo agli aventi formalmente diritto di voto (sono esclusi per esempio i minorenni e gli interdetti per condanne penali). Valbruzzi, considerando anche questi elementi, arriva a un dato storico: per la prima volta nella vita della democrazia repubblicana, i voti validi rappresentano meno della metà della popolazione, più precisamente il 49,3% degli italiani. In pratica la maggioranza parlamentare uscita dal voto rappresenta 1/4 del totale dei cittadini che possono essere coinvolti nella sua elezione.
Ma se Atene piange, Sparta non ride. Questi stessi numeri affermano che oggi anche la minoranza non è un’opposizione rappresentativa del Paese. Insomma, la democrazia in Italia ha qualche linea di febbre ed è bene che le istituzioni se ne prendano cura. Nel numero di settembre avevamo predetto, matematicamente, il rischio di astensione parlando della cosiddetta “corsa al centro” e del teorema dell’elettore mediano, per il quale i partiti propongono ricette molto simili che scoraggiano l’elettore a compiere una scelta. Anche in questa tornata elettorale la proposta mediana delle liste si è realizzata con la cosiddetta “agenda Draghi”, programma di intenti sbandierato da molti (tranne che dal diretto autore) che ha accumunato destra e sinistra in diverse proposte di politica economica ed estera.