“Do svidaniya”. La Russia si prepara a lasciare la Stazione spaziale internazionale (Iss) entro il 2025, ponendo fine alla ventennale collaborazione con gli Stati Uniti che aveva portato alla realizzazione dell’infrastruttura più grande, sofisticata e costosa mai costruita in orbita. Dopo mesi di rumors e sospetti, l’addio è stato confermato ufficialmente dall’agenzia spaziale russa Roscosmos, che per voce del suo numero uno, Dmitry Rogozin, ha dichiarato l’intenzione di lanciare una stazione orbitante propria entro il 2030: il primo modulo sarebbe già in fase di costruzione. Il vice premier Yuri Borisov ha motivato la scelta dicendosi preoccupato per la sicurezza degli astronauti, che sulla Iss si troverebbero a operare in una struttura ormai datata, ma forse questa è solo una parte della verità. E probabilmente non basta neppure chiamare in causa il rinnovato slancio nei programmi spaziali che la Russia avrebbe ritrovato dopo le recenti celebrazioni dei 60 anni dal primo volo umano di Gagarin. A far vacillare il futuro della Stazione spaziale internazionale, in realtà, sarebbero i venti gelidi di una nuova guerra fredda.
«Stiamo assistendo alla fine del multilateralismo dello spazio, che ha iniziato a sgretolarsi con l’era Trump», afferma l’ex presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) Roberto Battiston, docente di fisica sperimentale all’Università di Trento. «Ai tempi di Reagan e Gorbaciov si parlava di spazio trovando un modo di collaborare a carte scoperte: la stessa Iss ha rappresentato un enorme successo della diplomazia spaziale che, nel segno della scienza e della tecnologia, ha portato Washington e Mosca a lavorare insieme superando i contrasti politici: basti pensare che i materiali e le tecnologie destinati alla Iss sono stati esclusi dalla politica di embargo contro la Russia decisa dalla comunità internazionale dopo il caso Ucraina». Lo spazio, insomma, era diventato una “palestra” dove esercitare la collaborazione internazionale in modo pacifico per affrontare anche altre sfide globali, come la fame nel mondo e il cambiamento climatico.
Le cose, però, hanno iniziato a prendere una piega diversa con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. «La sua amministrazione ha usato lo spazio come uno strumento di influenza per creare rapporti bilaterali con i singoli Paesi», sottolinea Battiston. Il cambio di rotta si è visto chiaramente quando è iniziata la discussione sul programma Artemis della Nasa per il ritorno dell’uomo sulla Luna. «I russi sono stati esclusi, mentre Cina e India sono stati considerati not welcome e marginalizzati». Non stupisce, quindi, che la Cina (mai coinvolta nel progetto della Iss) abbia già avviato la costruzione in orbita del suo “Palazzo Celeste”, la stazione spaziale Tiangong, mentre l’India, ora alle prese con la sua prima missione umana in orbita prevista per il 2022 (in occasione del 75esimo anniversario dell’indipendenza dal Regno Unito), sta pianificando il lancio di una stazione orbitante da 20 tonnellate entro il 2030.
Secondo Battiston, «la Cina sta procedendo con la massima determinazione e non si escludono possibili collaborazioni con la Russia per future missioni lunari, mentre l’India, che sta mostrando grande vigore in campo spaziale, sembra più intenzionata a procedere in maniera autonoma».
Questo significa che nel giro di una decina di anni potremo avere diverse stazioni spaziali che sfrecceranno nell’orbita bassa riflettendo le alleanze e i blocchi di influenza che si stanno ridisegnando sulla Terra. Primi “effetti collaterali” extraterrestri di una politica internazionale miope che rischia di ridimensionare il ruolo della Iss, fresca di celebrazioni per i 20 anni di presenza umana a bordo. Un anniversario importante, turbato sì da qualche imprevisto (alcune perdite d’aria prontamente riparate che non hanno mai messo in pericolo l’equipaggio), ma segnato anche da nuovi progetti per il futuro.
Da un punto di vista tecnico, la Stazione spaziale internazionale sembra avere le carte in regola per continuare a operare almeno fino al 2028. Per questo la Nasa ha presentato a Wall Street un programma per lo sviluppo commerciale di quella che finora è stata una grande casa-laboratorio sospesa a 400 chilometri dalla Terra ma che presto potrà ospitare nuove attività di privati diventando il trampolino di lancio per la nuova space economy a stelle e strisce. La strada è stata spianata dal lancio della navetta Crew Dragon della SpaceX di Elon Musk, il primo “taxi spaziale”, a cui potrebbe presto seguire la Starliner della Boeing. «La disponibilità di nuovi veicoli oltre alla Soyuz per il trasporto di astronauti può portare a una maggiore continuità delle presenze a bordo della Iss, permettendo di avere equipaggi misti con gli astronauti istituzionali affiancati da altri privati», spiega Battiston. Le nuove navette, insomma, potranno trasportare il personale di aziende pronte a volare in orbita per progettare nuove attività. Ma di che tipo?
La microgravità potrebbe dare l’opportunità di sperimentare nuovi materiali e processi produttivi impossibili sulla Terra ma soprattutto potrebbe offrire la possibilità di organizzare soggiorni a cinque stelle per facoltosi turisti spaziali. Le prime prove generali, ricorda Battiston, sono state già fatte da Bigelow, la startup di Las Vegas pioniera nello sviluppo di moduli per stazioni spaziali espandibili, che nel 2016 ha installato sulla Iss il modulo Beam (Bigelow Expandable Activity Module): progettato per aumentare lo spazio abitabile, è l’equivalente di una tenda da campeggio familiare con un volume di circa 16 metri cubi.
Userà invece strutture più tradizionali (in metallo) la Axiom Space, che nel 2024 potrebbe iniziare ad agganciare alla Iss i suoi moduli pressurizzati con finestra panoramica: questi formeranno l’embrione di una nuova stazione spaziale, la prima privata, che al termine della vita operativa della Iss si staccherà e diventerà autonoma.