«Il mio augurio è che questo premio offra un messaggio positivo alle ragazze che vogliono intraprendere la via della scienza e che mostri loro che anche le donne nella scienza possono avere un impatto attraverso la ricerca che svolgono». Questa frase è apparsa l’11 ottobre 2020 sull’account Twitter del Premio Nobel. A pronunciarla, Emmanuelle Charpentier che assieme a Jennifer A. Doudna ha ricevuto il Premio Nobel per la chimica 2020. Entrambe hanno sviluppato la CRISPR/Cas9, la rivoluzionaria metodologia di editing genetico che rende possibile tagliare un DNA (animale, umano o vegetale) ed eliminare o sostituire specifiche sequenze per correggere mutazioni che causano malattie. Due donne hanno ricevuto contemporaneamente il massimo riconoscimento scientifico nel loro campo di studi: non era mai accaduto prima e questo fa del 2020 un anno eccezionale per la chimica al femminile. In passato, erano riuscite a ricevere il Nobel per la chimica solo Frances H. Arnold (2018), Ada E. Yonath (2009), Dorothy Crowfoot Hodgkin (1964), Irène Joliot-Curie (1935) e Marie Sklodowska-Curie (1911). Soltanto 7 donne su ben 186 Nobel assegnati per la chimica. Un caso tutto sommato felice rispetto ad altre discipline come, per esempio, la fisica, dove sono appena 4 le donne che hanno ricevuto il Nobel finora, compresa Andrea Ghez nel 2020.
Questa presenza femminile così esigua chiarisce l’auspicio di Emmanuelle Charpentier che, a sua volta, riprendeva il filo del discorso pronunciato nel 1977 da Rosalyn Yalow nell’accettare il Nobel per la medicina: «L’incapacità delle donne di raggiungere posizioni di comando è dovuta in gran parte alla discriminazione sociale e professionale (…) dobbiamo credere in noi stesse o nessuno crederà in noi; dobbiamo alimentare le nostre aspirazioni con la competenza, il coraggio e la determinazione di riuscire; e dobbiamo sentire la responsabilità personale di rendere più semplice il cammino per chi verrà dopo». Nella chimica esempi di donne del genere non mancano, anche se sono poco noti al di fuori del loro ambiente. Per questo è utile ricordarne qualcuno.
Quando Stephanie Kwolek nasce in Pennsylvania nel 1923, i genitori certo non immaginano che diventerà una pioniera nella chimica dei polimeri. Alla fine degli anni ’40, Stephanie va a lavorare alla DuPont Company di Buffalo, azienda già nota per aver introdotto il nylon poco prima della seconda guerra mondiale. Andrà in pensione nel 1986 dopo aver accumulato una serie di premi, innovazioni e brevetti. Alla metà degli anni ’60, proprio dalle sue ricerche sui polimeri nascono una straordinaria innovazione e un materiale che avrebbe cambiato (e salvato) la vita di molte persone: il kevlar.
Mary Lowe Good (1931–2019) nasce in Texas da due insegnanti e fin da giovane resta folgorata dalla figura di Marie Curie, al punto da decidere di studiare chimica. Nel 1955, dopo la laurea, prende il dottorato e nel 1967 apre la strada alla spettroscopia Mössbauer. È una tecnica tanto nuova quanto utile, che usa i raggi gamma per svelare la struttura molecolare dei composti complessi contenenti ioni metallici. Per i suoi risultati riceve la nomina al National Science Board e al President’s Council of Advisors on Science and Technology. Nel 1983 riceve la medaglia d’oro dell’American Institute of Chemists e nel 1997 è la prima donna insignita della Priestley Medal, la più alta onorificenza della American Chemical Society. L’anno dopo è premiata con la medaglia d’oro Othmer per la straordinaria carriera accademica, industriale e al servizio del pubblico con cui ha fatto progredire la chimica.
Kiran Mazumdar-Shaw (1953) è la figlia di un mastro birraio della United Breweries con sede in India. Si laurea presto in zoologia e si specializza in birrificazione perché vorrebbe seguire le orme paterne ma nessun birrificio intende assumere una donna. Ripiega allora sulle consulenze aziendali finché non incontra Leslie Auchincloss, proprietaria di un’azienda biochimica irlandese. Impressionata dalle capacità della giovane, Auchincloss le offre di diventare capo della Biocon India, una piccolissima società con appena 3 dipendenti che produce enzimi per la birra, tessili, biocarburanti e mangimi animali. È il 1978 e Kiran ha solo 25 anni. L’anno dopo Biocon è la prima azienda indiana a esportare enzimi negli Stati Uniti e in Europa e nel 2001 è la prima società autorizzata dalla Food and Drug Administration statunitense a produrre una molecola per abbassare il colesterolo. Oggi è la più grande azienda biotecnologica dell’India. Intanto, nel 2000, il World Economic Forum riconosce a Kiran Mazumdar-Shaw lo status di Technology Pioneer; nel 2002 per Ernst & Young è lei la miglior imprenditrice nel campo della sanità e delle scienze della vita e nel 2004 l’Economic Times la premia come imprenditrice dell’anno.
Si potrebbe poi raccontare di Kathryn Hach-Darrow (1922-2020) che con il marito fonda nel 1947 la Hach Chemical Company, società che introduce la chimica nell’analisi delle acque, permettendo agli americani di bere acqua pulita e sicura. O anche di Paula Hammond (1963), la ragazzina afroamericana di Detroit che a 15 anni s’innamora della chimica e diventa pioniera delle nanotecnologie. Oggi dirige il Dipartimento di ingegneria chimica del Mit di Boston dove è cofondatrice dell’Istituto per le nanotecnologie e insegnante al Koch Institute for Integrative Cancer Research.
Queste sono solo alcune storie di donne che hanno avuto successo nella chimica. Fortunatamente ce ne sono altre. La tentazione di considerarle storie straordinarie è forte ma non è così: sono soltanto necessarie. Necessarie a mostrare che (nella scienza) non dovrebbero esistere questioni di genere. Tutti dovrebbero avere l’opportunità di mostrare il proprio valore e le proprie competenze.