Quando si parla di elezioni, di democrazia, di sistemi elettorali, in genere si litiga. Perché? Il primo esempio storico di democrazia è unanimemente considerato quello ateniese in cui una parte limitata di cittadini, di sesso maschile, poteva proporre leggi e votarle. Le rivoluzioni inglese, francese e americana videro ancora un coinvolgimento di solo una parte della popolazione nel processo elettivo e decisionale: fino al 1832 votava in Gran Bretagna soltanto il 3% della popolazione, esclusivamente maschile; nel 1867 si arrivò ad ammettere al voto un po’ meno del 9% della popolazione. Negli Stati Uniti la situazione era leggermente migliore: nel 1840 a votare per il Presidente fu l’80% dei cittadini bianchi. In Francia, fino al 1848, avevano diritto al voto circa 246 000 persone (in quell’anno una riforma li portò a nove milioni). Solo recentemente, e non ancora dappertutto, la partecipazione al voto di tutta la popolazione adulta viene ritenuto un aspetto essenziale del processo democratico. Ma, dato per scontato che la popolazione deve avere diritto ad esprimere il suo voto, come è che si dovrebbe votare? Il problema è delicato e sostanzialmente non esiste una risposta univoca. Meglio: forse l’unica vera risposta assoluta è in un teorema molto teorico (di Kenneth Arrow) ma dalle evidenti implicazioni pratiche, per il quale, se si vuole avere una regola che soddisfi due proprietà ragionevoli, allora l’unico modo è quello di avere un dittatore. Le due proprietà sono quella di unanimità (se tutti preferiscono il candidato A al candidato B, allora A deve essere classificato prima di B) e di indipendenza dalle alternative irrilevanti (sostanzialmente garantisce che le persone non abbiano incentivo a mentire nell’esprimere le loro preferenze). Come conseguenza del teorema di Arrow, economista statunitense vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 1972, non esiste un modo democratico e ottimale di aggregare le preferenze degli individui, che è quello che un’elezione dovrebbe fare. Questa consapevolezza porta alla conclusione che qualunque sistema ha i suoi difetti e che è legittimo che circolino idee diverse.
Ma prima di tutto, come può essere garantita la rappresentanza ai votanti? Il problema non si porrebbe se ogni cittadino sedesse in Parlamento! Ovviamente questo è impossibile e si pone quindi il problema della rappresentatività. La prima istanza in una democrazia dovrebbe essere che il Parlamento rappresenti il più fedelmente possibile le preferenze della popolazione: siccome queste in genere si aggregano in partiti e movimenti, si tratta di applicare un metodo proporzionale. Ma posto che lo si voglia fare (non è scontato, come vedremo), come si applica? Quando si fanno proporzioni, si devono fare divisioni e queste in genere danno resti: una banalità, ma nei problemi di rappresentatività questa semplice osservazione ha un effetto dirompente. Ecco un piccolo esempio: supponiamo di voler assegnare 10 seggi in un parlamento che rappresenti le tre regioni, A, B e C, con la regione A che è un terzo delle regioni B e C. Eseguendo le operazioni, si ha:
Abbiamo ragionevolmente assegnato 2 seggi alla regione A che ha un resto (429) più alto rispetto a B e a C (286). Siccome le parti intere delle divisioni hanno come somma 9 (1+4+4), si assegna l’ultimo seggio a chi ha il decimale più alto. Supponiamo ora di voler aggiungere un seggio, visto che anche il numero dei seggi è una variabile che va scelta. Si ottiene allora la tabella seguente:
La povera regione A, all’aggiunta di un seggio complessivo, ne perde uno! Questo fatto è conosciuto come il paradosso dell’Alabama. Ecco un primo motivo per litigare: il numero di seggi, a parità di altre condizioni, può sfavorire o favorire alcuni.
Torniamo al sistema proporzionale. I Paesi che sono più vicini a un proporzionale puro sono l’Olanda e Israele. In Olanda, per ottenere un seggio occorre avere 1/150 dei voti validi, che in percentuale significa un po’ più di 6 votanti su 1 000. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi, il proporzionale non viene utilizzato in maniera integrale: un metodo spesso utilizzato consiste nel dividere un Paese in circoscrizioni. Se l’Italia fosse un’unica circoscrizione, per ottenere uno dei 618 deputati (gli altri 12 vengono eletti nella circoscrizione Estero) un partito avrebbe bisogno di circa lo 0,16% dei voti. Ma si potrebbero, al limite, anche fare 618 circoscrizioni, ognuna di circa 100 000 abitanti che eleggerebbe un deputato. In questo caso, per avere un seggio sarebbe necessario avere almeno il 30% circa dei voti (anche se il dato dipende dal numero dei partiti che si presentano), il che chiaramente favorisce i partiti maggiori e ciò rappresenta, come vedremo, un maggioritario di fatto. Uscendo dai casi limite (un’unica circoscrizione, un deputato per circoscrizione), nei Paesi dove si usa il proporzionale in genere le circoscrizioni hanno una dimensione media che varia tra i 7 e i 30 seggi.
Quando in una circoscrizione ci sono più seggi da assegnare esiste poi il problema della ripartizione dei resti, cui abbiamo accennato a proposito del paradosso dell’Alabama. Il più istintivo modo di assegnare i seggi rimanenti è di attribuire, come abbiamo visto, i seggi ai resti più alti. Esistono, però, anche altri metodi. Uno, detto del divisore di D’Hondt, è utilizzato in quasi un terzo degli Stati dell’Unione Europea (anche in Italia nel passato). Supponiamo che ci siano da assegnare 10 seggi e che siano presenti 5 partiti. Si procede così: per ogni partito si divide il numero dei voti per 1, 2, …10. Si ottengono così 50 numeri, 10 per ogni partito. Si assegna un seggio ai 10 numeri più grandi. Questo sistema tende a concentrare i seggi rimanenti sui grandi partiti. Ma non basta: c’è chi, per esempio, ha proposto lo stesso metodo ma utilizzando solo divisori dispari il che, sperimentalmente, mostra un effetto intermedio tra quello dei resti e quello di D’Hondt. Per concludere sul problema circoscrizioni, c’è da osservare che anche la loro delimitazione geografica conta: se si prendono un numero di elettori che costituiscono, per numerosità, due circoscrizioni, la maniera con cui queste vengono disegnate può avere conseguenze pesanti sul voto. Quindi, anche se si sposa l’idea di votare con un sistema proporzionale, lo si può fare in vari modi che possono portare a risultati abbastanza differenti: davvero difficile mettersi d’accordo.
Ma non finisce qui: il sistema proporzionale è comunque soggetto a critiche perché si pensa che, soprattutto senza correttivi, possa portare a un’eccessiva frammentazione di un Parlamento. La politica ha il compito di aggregare le idee e proporre progetti e un Parlamento eccessivamente frammentato è spesso inefficiente. A volte prosperano partiti che, pur avendo raccolto un consenso relativamente basso, assumono un potere molto alto, con conseguenze deleterie. Come esempio estremo, basta immaginare un Parlamento in cui due grandi partiti hanno, per esempio, 49 deputati ciascuno e un terzo ne ha 2. Se, come spesso accade, i due grandi partiti non riescono a governare assieme, il terzo partito ha un potere assolutamente sproporzionato rispetto al numero di deputati che ha.
Per questo, al metodo proporzionale viene contrapposto il sistema maggioritario, diffuso in genere nei Paesi di lingua inglese. Il suo obiettivo principale è di garantire meccanismi semplici, facilmente comprensibili dall’elettorato, e di portare alla formazione di governi stabili. In particolare, questo sistema sembra favorire il bipartitismo, come si osserva appunto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. L’elettore, si pensa, in un collegio uninominale tende a concentrare il voto su uno dei grandi partiti, visto che i piccoli hanno possibilità nulle o quasi di eleggere il proprio candidato. Esistono tuttavia numerosi controesempi: l’Austria ha mantenuto per anni un sostanziale bipartitismo, nonostante un sistema proporzionale; in Germania nel 1949 entrarono in Parlamento 10 partiti, nel 1961 solo tre, eppure il sistema di voto era lo stesso. Inoltre, è ben noto che, anche quando i candidati sono solo 2, con il sistema maggioritario può succedere che venga eletto chi ha preso meno voti su scala nazionale, proprio perché in ogni circoscrizione esiste un solo vincitore. Questo fenomeno per esempio accade non raramente negli Stati Uniti in occasione dell’elezione del Presidente, perché ogni Stato vota uno solo dei candidati alla Presidenza, a prescindere dal fatto se il partito che esprime il candidato votato abbia vinto con il 50,1% o con il 95% dei voti.
Naturalmente esistono poi varie forme miste di sistemi, che mettono assieme una parte maggioritaria e una proporzionale. A volte però le regole rischiano di diventare troppo complicate, al punto che la pratica del voto viene scoraggiata.
Per concludere, menzioniamo un metodo che meriterebbe più attenzione. In genere, il cittadino, al momento del voto, deve indicare un nome e/o un partito. Ma all’elettore si potrebbe chiedere di più. In Australia, per esempio, il cittadino indica un ordine di preferenza sui candidati, non solo il primo della sua lista. Se, come spesso succede, nessuno dei candidati raggiunge la maggioranza assoluta, si esclude quello che ha preso meno voti e si contano di nuovo i voti assegnando la seconda scelta a quegli elettori che, in prima istanza, avevano indicato come prima preferenza il candidato escluso. E si procede così, fino al momento in cui uno dei candidati ha, necessariamente, la maggioranza assoluta. Questo metodo sembra riflettere meglio di altri la volontà della popolazione e dà mandato forte al vincitore che alla fine ha la maggioranza assoluta dei voti.
Purtroppo non esiste un metodo di votazione che sia superiore agli altri da ogni punto di vista: se si vogliono perseguire certi obiettivi, è fatale che altri rischino di essere completamente disattesi. Non solo, ma molti aspetti delle regole di voto influenzano il risultato finale. In conclusione, disegnare un meccanismo elettorale è complicato, delicato, e non darà mai un sistema completamente soddisfacente. Dobbiamo farcene una ragione, sarà sempre così. Per questo la democrazia, che è un bene fragile e da custodire gelosamente, a volte è anche un po’ illusoria.