UCRAINA-RUSSIA: Quanto reale può essere un attacco ad una centrale nucleare?

Continuano le riflessioni del fisico Piergiorgio Pescali, presente in Ucraina nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio del conflitto, sulle problematiche legate alla gestione della centrale nucleare di Chernobyl in questi giorni così difficili

 

Il 27 febbraio, all’1.20 di notte, alcuni missili hanno colpito il sito di stoccaggio di materiale radioattivo presente all’interno di un sito della Radon, l’azienda statale deputata a custodire scorie nucleari. L’attacco ha messo fuori uso i sistemi di rilevamento radiologici, ma quelli portatili non hanno rilevato perdite di radioattività e il complesso in cui sono custoditi i materiali di scarto radioattivi non ha subito danni.

L’attacco, pur senza conseguenze, ha riproposto, così come era stato per la conquista di Chernobyl da parte delle truppe russe il 25 febbraio scorso, il timore che una guerra possa trasformare una centrale o un deposito nucleare in un’arma di distruzione di massa.

L’Ucraina ha 4 centrali nucleari operative sotto il suo controllo in cui sono installati un totale di 16 reattori: 4 a Rivne, a ovest di Kiev, 2 a Khmelnitskiy, a sudovest, 4 a Sud Ucraina, a sud e 6 a Zaporizhzhe, ai confini meridionali della regione del Donbass.

Le centrali nucleari in funzione in Ucraina sono obiettivi sensibili più che altro per far detonare una paura psicologica, più che reale, in tutto il continente europeo. Tutti i reattori oggi in funzione sono di tipo PWR (Pressure Water Reactor), del tutto differenti rispetto ai reattori a grafite RBMK del tipo di quello esploso a Chernobyl.

Anzitutto i PWR sono molto più piccoli (circa il 15% del reattore numero 4 della centrale Lenin) e molto più sicuri (anche se il rischio zero non esiste). Il modo più conveniente per causare un disastro nucleare non è quello di bombardare direttamente il reattore (la protezione di cemento e acciaio resisterebbe a impatti notevoli), quanto quello di causare un completo black-out degli impianti di raffreddamento del reattore stesso per raggiungere una criticità tale da fondere il materiale nucleare, sull’esempio di ciò che è accaduto a Fukushima l’11 marzo 2011. In tal caso, però, dovrebbero essere completamente distrutti gli impianti di refrigerazione ausiliari, quelli di emergenza, impedendo al contempo ogni possibilità, da parte dei soccorsi, di raggiungere la centrale allacciando in tempo utile nuovi generatori. Insomma, una serie di raid altamente coordinati tra loro non certo impossibili, ma dal successo sicuramente altamente improbabile mancando anche l’effetto sorpresa. La situazione di Fukushima era, paradossalmente, ben peggiore: lo tsunami aveva devastato, nel giro di pochi minuti, l’intera infrastruttura nel giro di decine di chilometri e lo sconvolgimento naturale aveva impedito l’arrivo dei soccorsi in tempo utile. Uno scenario che difficilmente potrebbe essere riproposto in Ucraina anche da un esercito tecnologicamente attrezzato come quello russo.

Nel frattempo, a Chernobyl la situazione si è stabilizzata e le forze russe, che hanno ora il controllo della centrale, collaborano con la Guardia nazionale ucraina nel controllo dell’impianto. Secondo quanto affermato dall’agenzia RIA Novosti, i livelli di radiazioni sono nella norma e vengono controllati sei volte al giorno, mentre gli impiegati ucraini continuano a lavorare normalmente accanto a militari di Mosca.

L’esplosione seguita all’incidente del 26 aprile 1986 ha fatto crollare gran parte delle strutture del reattore numero 4 e il calore sprigionatosi dall’incendio e dalle reazioni di fissione ha sciolto ogni tipo di materiale sigillando il combustibile nucleare radioattivo in un corium contenuto principalmente in un luogo ben preciso (chiamato stanza 305/2) inaccessibile sia all’uomo che ai robot. È proprio da questa parte del reattore che lo scorso anno si sono registrati picchi di emissioni neutroniche causate, molto probabilmente, da una progressiva diminuzione di umidità dovuta al nuovo sarcofago che, dal 2017, protegge la struttura. L’acqua, in questo caso sotto forma di umidità, entro un preciso range di percentuale potrebbe fungere da moderatore neutronico innescando reazioni nucleari. Al di sopra e al di sotto di questo intervallo, le molecole di acqua non sarebbero sufficienti a rallentare i neutroni che, essendo troppo veloci, non innescherebbero la reazione di fissione. L’aumento rilevato, quindi, sarebbe solo temporaneo e durerà il tempo sufficiente affinché l’umidità contenuta nella stanza 305/2 evapori.

Nessuno, ad oggi, può raggiungere il corium al fine di controllarne o aumentarne la pericolosità a meno di una deliberata azione criminale decisa a tavolino che al momento nessuno, per fortuna, sembra prendere in considerazione.

Anche i canister che contengono i materiali di scarto radioattivi sono sufficientemente protetti, anche se, in questo caso, potrebbero rappresentare un motivo di preoccupazione maggiore rispetto al reattore numero 4. Un’eventuale (anche in questo caso deliberata) distruzione dello spesso involucro che protegge il materiale radioattivo libererebbe una quantità di esso che, a trent’anni di distanza dall’incidente, conterrebbe principalmente cesio-137, ma in quantità dimezzata rispetto a quella originale, a causa dell’emivita dell’isotopo che è, appunto, di 30 anni. Non ci sarebbe, invece, alcun radioisotopo iodio-131, completamente trasformato in elementi innocui per la salute dell’uomo.

Lo smantellamento dei recipienti di contenimento delle scorie nucleari libererebbe quantità considerevoli di materiale, anche se non in quantità tale da rappresentare un pericolo oltre una ristretta e limitata superficie entro la quale questo materiale si depositerebbe.

Le autorità ucraine, più per propaganda che sulla base di considerazioni oggettive, continuano a disegnare scenari catastrofici per l’intera Europa nel caso la Russia decida di attaccare una o più installazioni nucleari civili dislocate nel Paese.

Come si scriveva all’inizio, il pericolo nucleare è più psicologico che reale.

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