I venti di guerra che soffiano in Ucraina hanno cambiato direzione: se nel 2014 soffiavano da est e da sud, lungo le pianure del Donetsk e le coste della Crimea, oggi è il vento di guerra della tramontana a destare maggior preoccupazione. Al confine settentrionale migliaia di truppe russe si sono ammassate nelle cittadine bielorusse di Rečika e di Zyabrovka: elicotteri, carri blindati, ospedali da campo, mezzi di trasporto, reparti specializzati aviotrasportati si sono radunati nelle gelide steppe a pochi chilometri dal confine ucraino. Le foto satellitari mostrano che i militari continuano a compiere esercitazioni lasciando sulla neve le tracce dei cingoli e delle ruote dei mezzi utilizzati.
Se la guerra è già di per se stessa una tragedia sociale, vi sono eventi che riescono ad ampliarne la drammaticità e ad accrescere la paura che incute all’uomo. I comandi ucraini hanno più volte affermato che una possibile direttrice dell’invasione russa potrebbe essere la stessa capitale Kiev (o Kyiv, come sempre più spesso, in Ucraina, si viene corretti, perché Kiev è russo e Kyiv è ucraino). E la strada più diretta per raggiungere gli uffici della presidenza e del governo passa attraverso Černobyl. Qui, dove il 26 agosto del 1986, il reattore numero 4 della centrale nucleare sovietica Lenin (la storia a volte sa essere ironica) esplose liberando una quantità considerevole di radioisotopi: oggi circa 2.600 chilometri quadrati di terreno sono ancora off limits per il livello di radiazioni presenti.
Lo scorso 4 febbraio, in una kermesse mediatica ben orchestrata e perfettamente riuscita, il ministro della difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, ha mostrato alla stampa locale e straniera una serie di esercitazioni militari dell’esercito nazionale rivolta a contrastare una eventuale invasione russa. Reznikov non ha perso l’occasione di affermare che Černobyl è un lascito non gradito della dominazione sovietica (leggi russa).
Ma cosa accadrebbe se i reparti dell’esercito russo di stanza in Bielorussia decidessero di avanzare verso Kiev attraversando la zona di esclusione di Chernobyl? Di sicuro non morirebbero immediatamente per le radiazioni assorbite, come ha avuto modo di affermare, in un discorso più propagandistico che scientifico, uno dei comandanti militari ucraini. Il livello di radioisotopi non è tale da creare problemi nell’immediato: nel centro di Prypiat, la città più grande a pochi chilometri dalla centrale nucleare, nel corso del 2021 si è registrato un livello medio di radioattività pari a quello di Roma o del Centro Italia, dove il terreno tufaceo innalza la radioattività naturale a livelli leggermente superiori a quelli della media italiana. I turisti che arrivano a visitare la zona e che entrano anche nella centrale assorbono in totale 0,1 mSv di radioattività in una intera giornata di tour; la stessa quantità che si assorbirebbe per una radiografia al torace con i raggi X. Non è poco, ma neppure molto se pensiamo che vi sono aree sul nostro pianeta che hanno una radioattività naturale ben più elevata e costante.
Il divieto di risiedere nell’area è dovuto al fatto che, a causa delle condizioni atmosferiche (venti, piogge, animali che si aggirano trascinando radioisotopi) la radioattività non è costante e può raggiungere livelli relativamente alti, anche se per periodi di tempo limitati.
Inoltre, i comandi militari russi hanno mappe dettagliate dell’intera zona. Sono mappe risalenti al 1991, ma da allora nulla è cambiato a Černobyl: edifici, strade, tunnel, bunker, cimiteri, impianti militari sono rimasti esattamente come erano nel 1986.
Il pericolo più grande è rappresentato dagli hot spots, sacche di radioattività che si concentrano in piccole aree per via del microclima o della composizione chimica del terreno. Tutti questi hot spots però sono costantemente sorvegliati e segnati su mappe dettagliate, disponibili al pubblico su internet e continuamente aggiornate dalla polizia ucraina e dai tecnici incaricati di misurare i livelli di radioattività nella zona. Non è difficile, quindi, per i militari russi, aggirare queste sacche.
Ma un’eventuale incursione bellica nella zona di esclusione rischia di rivoluzionare l’intero ecosistema: i carri armati, i mezzi di trasporto, gli elicotteri, le esplosioni rivolterebbero il terreno liberando notevoli quantità di radioisotopi nell’aria che si spargerebbero non solo in Ucraina, ma anche nella vicina Bielorussia e persino nelle zone di confine russo, situate a un centinaio di chilometri in linea d’aria da Černobyl. Un “effetto collaterale” che non farebbe certo piacere a Lukašenko e alle province russe interessate al fallout. Non solo; le migliaia di soldati, assieme ai cingoli e agli pneumatici dei carri, trasporterebbero altre particelle radioattive al di fuori dell’area di contenimento.
Tra tutti questi possibili scenari, il luogo più sicuro in cui “rifugiarsi” in caso di guerra sarebbe proprio la centrale nucleare. Nessun esercito trarrebbe beneficio da una sciagurata battaglia per il suo controllo o, ancora peggio, da un bombardamento delle sue strutture. La condanna internazionale, in tal caso, sarebbe unanime e devastante per l’autore – o gli autori – dell’atto sacrilego. Entrambe le armate, quindi, staranno bene attente a non scalfire la sacralità non solo del sarcofago (che, è bene ricordarlo, è un’opera di ingegneria costata circa due miliardi di dollari pagati per la maggior parte da Stati Uniti e Comunità Europea), ma anche dell’impianto che una volta portava il nome di Vladimir Lenin.