Di scuola si parla poco in Italia. Di contenuti men che meno. Anche quando si ricordano i quasi 20 miliardi che il Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza) dedica al potenziamento del sistema dell’istruzione, il discorso tende a concentrarsi sulla ristrutturazione degli edifici e sul ripensamento degli spazi fisici. Temi cruciali ma che non esauriscono affatto – l’abbiamo scritto più volte su Prisma – l’argomento scuola.
Allora non capisco perché, quelle poche volte che si entra nel merito di che cosa dobbiamo insegnare a scuola, ci si debba dividere tra chi vuole maggior spazio per le discipline Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) e chi rivendica il ruolo della cultura classica, della storia e della filosofia. Siamo tornati alle guerre di religione (culturale). Siamo arrivati a litigare sulle guerre puniche e a chiederci se è ancora necessario nel XXI secolo insegnarle e quante volte durante l’intero percorso scolastico. Come se una cultura escludesse, almeno di fatto, l’altra.
Nessuno ha mai sentito parlare di umanesimo scientifico? La scienza indica la strada da seguire – è alla scienza che dobbiamo educare le nostre ragazze e i nostri ragazzi – ma ha bisogno essa stessa delle altre culture: per il suo sviluppo, non per essere “colta” ed erudita.
All’inizio del nuovo anno è permesso esprimere i propri desideri, anche quelli più ingenui. Confesso allora che mi piacerebbe:
• che i politici e gli opinionisti che si avventurano nella discussione dei contenuti riconoscessero preliminarmente che è un argomento complesso: si confrontano diversi linguaggi e la cultura ereditata dalle generazioni precedenti si scontra con quella vissuta dalle generazioni più giovani. Riconoscere la difficoltà del tema è un atto di onestà intellettuale, che tiene alla larga gli “urlatori“ e quanti esauriscono le proprie argomentazioni in qualche provocazione;
• che Mario Draghi parlasse alla nazione su questo tema – come dobbiamo preparare le ragazze e i ragazzi di oggi a ragionare e ad affrontare le sfide della modernità – proponendolo come cruciale per il futuro dell’Italia senza inserirlo in un “pastone” e delegando invece il ministro competente a coordinare un dibattito che deve coinvolgere tutto il Paese;
• che il dibattito non si chiudesse con un documento ma con delle scelte precise, con tanto di scadenze e monitoraggi programmati, come l’Europa ci ha chiesto (e noi abbiamo accettato) per il Pnrr;
• che, quando si parla di matematica, non la si contrapponesse alla storia, alla filosofia, alla cultura (come viene sbrigativamente chiamata una cultura). Proprio in Italia bisognerebbe ricordare l’insegnamento di Federigo Enriques. La sua lezione non è rimasta isolata, lontana cento e più anni fa. In questi decenni a cavallo del Duemila è stata sviluppata da diverse generazioni di matematici. È una tradizione particolarmente viva in Italia e anche l’esperienza di Prisma si colloca in questo solco;
• che ancora, quando si parla di matematica, non si contrapponesse la modernità delle applicazioni alla “vecchia matematica teorica“. È un rapporto, quello tra teoria e applicazioni, oggi particolarmente stimolante e connotato da una dinamica quanto mai vivace. Con la nostra rivista, la stiamo seguendo a livello di ricerca e a livello didattico.
Semplificazioni eccessive sono fuorvianti e non giovano a nessuno.
Buon anno e buona lettura!
Angelo Guerraggio | Direttore editoriale