Quante volte abbiamo sentito invocare il merito e la gerarchia che ne deriva, la meritocrazia, come unica terapia per rimuovere finalmente tutte le ingiustizie della nostra società? Il merito, come l’eccellenza, sono parole ambivalenti. Hanno anche un lato altrettanto oscuro di quelle a cui le si vorrebbe contrapporre. Nascondono un inganno. Non è raro che, quando si va alla radice dei concetti etici fondamentali, ci si trovi su un terreno ambivalente. Così è per il merito. È autentico il merito che viene premiato alle ammissioni alle nostre Grandi Scuole e Università?Recentemente è apparso il libro La tirannia del merito del filosofo Michael J. Sandel (famoso per i suoi gedankenexperiments volti a chiarire i dilemmi etici). Il libro ribadisce con forza che, senza pari opportunità, vincerà sempre chi ha più mezzi. Insomma, senza parità di condizioni non si può nemmeno iniziare a parlare di merito!
Si noti incidentalmente che il metodo delle quote, introdotto in tanti Paesi per compensare le minoranze svantaggiate, non funziona. Alla fine penalizza proprio ciò che vorrebbe promuovere ed è rifiutato dalle minoranze stesse, perché non rimuove le cause delle disparità se non in un unico punto del percorso di vita.
E veniamo quindi al cuore più oscuro dell’inganno del merito che è la tanto esaltata eccellenza a cui dovrebbe condurre. Eccellenza di cosa? Si eccelle quando si raggiunge il massimo dell’efficienza e del profitto. Ma chiediamoci per chi? Non è così scontato infatti che questo profitto sia a beneficio della comunità e vada a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Per citare Paolo Flores d’Arcais, eccellere significa solamente essere più abili
degli altri nell’obbedire ai dettami della tecnica (materiale e/o sociale) in questione, le cui finalità sono però spesso estranee alla libertà dell’individuo. L’eccellenza spesso è il massimo grado del conformismo e dell’alienazione.
Ma l’inganno del merito è ancora più sottile e tremendo perché, quando l’eccellenza non viene raggiunta, ovvero quando si fallisce, chi perde potrà incolpare solamente se stesso, non l’establishment! Parafrasando Hannah Arendt, “la banalità” del merito sta nella totale deresponsabilizzazione del sistema che lo promuove. È l’equivoco, questo, che confonde libertà con liberismo, che invece ne è la reazione.
Parlare genericamente di merito è fingere che funzioni l’ascensore sociale quando, nelle nostre società occidentali, questo si è rotto da tempo. Le disparità si sono amplificate a dismisura e l’ideale delle pari opportunità scivola sempre più nell’utopia. Si potrebbe porvi rimedio, matematicamente, premiando allora la derivata prima, l’incremento relativo, cioè i progressi. Ma è un rimedio debole perché non contribuisce a creare quelle condizioni di parità che sono precondizioni alla vera democrazia. Se proprio si vuole esaltare il merito, non lo si usi quindi in modo generico ma lo si qualifichi. È merito solo quello che, per dirla con Albert Camus e Amartya Sen, “fa diminuire
aritmeticamente il dolore nel mondo”.
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