Voglia di arte? Il Kunstmuseum di Basilea sta ospitando una mostra unica nel suo genere: A Black Hole is Everything a Star Longs to Be dell’artista statunitense e negra (questo è l’attributo che lei stessa si è affibbiata) Kara Walker. Se dal punto di vista scientifico il titolo della mostra lascia perplessi, (in italiano “Un buco nero è tutto ciò che una stella desidera diventare”), nel campo artistico la personale è un evento imperdibile per chi pensa all’arte come forma di espressione politica e di emancipazione sociale.
Kara Walker è forse una delle artiste più impegnate emerse negli ultimi decenni negli Stati Uniti. È infatti dal 1994, quando partecipò assieme a Brad Brown, Jeff Beall e Larry Krone ad una collettiva al The Drawing Center di New York, che i suoi lavori sono apprezzati o disprezzati da critici e spettatori a seconda del loro orientamento politico.
Le opere in mostra fino al 26 settembre a Basilea, capitale della cultura svizzera, sono oltretutto inedite perché considerate dall’artista statunitense troppo private e intime per poterle esporre. È stata la curatrice Anita Haldermann a convincere Walker ad aprire i suoi cassetti ad un pubblico così eterogeneo e culturalmente diverso dal suo come quello svizzero ed europeo.
“Alcuni lavori erano semplicemente stati esclusi da altre mostre perché in sovrannumero, altri perché non si pensava fossero di qualità così elevata da poter essere esposti”, ha spiegato Anita Haldermann. È la stessa Haldermann, nella presentazione inaugurale della mostra, ad ammettere che alcune delle opere non sono certo il “best of” di Kara Walder, ma la composizione finale è certamente interessante. “L’esibizione mostra quanto importante sia il suo lavoro” ha spiegato la curatrice “e quanto sia legato alla situazione politica statunitense e al movimento Black Lives Matter”.
Proprio il suo impegno politico trasferito nella sua arte ha reso Kara Walker un modello idolatrato o, viceversa, un feticcio verso cui sfogare la propria rabbia. Per alcuni la Walker è “troppo nera”, per altri “troppo soffice nel criticare la società statunitense attuale”, per altri ancora un’attivista all’acqua di rose. La sua arte, se all’inizio è stata accolta con favore da un pubblico “alternativo”, con il passar del tempo e il crescere della fama (e degli introiti economici derivati dalla vendita delle opere) ha visto cambiare il pubblico di estimatori verso ceti sempre più esclusivi della società nordamericana. L’artista femminista nera Betye Saar ha definito il suo lavoro “rivoltante e negativo” per la quantità di stereotipi sui neri espressi da Kara Walker.
Il visitatore viene accolto da una serie di disegni e ritagli intervallati da bozzetti, intagli. Da buona artista impegnata vengono incastonate frasi ad effetto, scritte appositamente per colpire l’osservatore e la sua morale, spesso perbenista. Neologismi che non lasciano spazio all’immaginazione (ad esempio “N-word” o “M-word”) o che definiscono intere popolazioni continentali con parole bandite dal vocabolario “politically correct”. Gli africani divengono quindi i “wenigger”, una sincrasi di “we”, noi, e “nigger”, negro, parola altamente offensiva per descrivere la popolazione di origine africana negli USA. La stessa Kara Walker ama spesso definirsi come “negress” piuttosto che con il più neutro “black”.
La scelta, della stessa artista, di non procedere all’esposizione del Kunstmuseum per produzione cronologica, se da una parte priva lo spettatore della possibilità di seguire il percorso di crescita della Walker, dall’altra non priva della consapevolezza che l’impegno sociale che ha contrassegnato la sua vita sia sempre stato una costante ben presente. Anzi, una pietra angolare del suo lavoro.
Risulta quindi meno scioccante trovarsi di fronte ad una delle opere più note e dissacranti di Kara Walker: Barak Obama as Othello “The Moor” With the Severed Had ag Iago in a New and Revised Ending by Kara. Qui è evidente la pena interiore seguita all’elezione di Donald Trump come presidente degli USA. Una sofferenza acuita ancora più dopo otto anni di presidenza da quello che la Walker definisce senza mezzi termini un “Salvatore” o un “Messia”: Barak Obama. L’idealizzazione, sicuramente troppo disumanizzante e poco realistica, del primo presidente “negro” che, nelle stesse parole della Walker, “rappresenta il collasso di un ordine naturale suprematista bianco” per diventare “il grande Salvatore di questo infinito gioco razzista” che è la storia statunitense, è evidente nelle quattro opere esposte a Basilea. La testa di Trump tenuta sul grembo da un Obama nelle vesti di Otello è il punto di arrivo che passa attraverso altre tre opere, due disegni e un dipinto, che ripercorrono il travaglio interiore non solo di Kara Walker, ma di un’intera fetta della società statunitense.
A partire da Barak Obama as “An African” with a Fat Pig (by Kara Walker), una satira verso chi, per screditare il presidente, affermava che fosse nato in Kenya anziché nelle Hawaii. Sullo stesso tema rimane il Barak Obama Tormented Saint Anthony Putting Up With the Whole “Birther” Conspiracy, un disegno che prende spunto da una raffigurazione cinquecentesca delle Tentazioni di Sant’Antonio di Martin Schongauer. In entrambe i disegni il nemico giurato di Karen Walker, Donald Trump, appare sotto forma di maiale (nel primo) e di diavolo che con una clava primitiva infierisce sulla ferita del costato aperta di Obama (nel secondo). L’idealizzazione obamiana come Salvatore e Redentore, già presente nel Tormento, risulta nella sua sfavillante deificazione nell’ultimo quadro della serie: Allegory of the Obama Years by Kara E. Walker, 2019 dove il volto del presidente si affaccia tra le nubi scure e temporalesche e da cui si sprigionano i raggi di sole della salvezza e della speranza. Ed è proprio nel cuore della campagna del Black Lives Matter, che una donna, nera e nuda, alza le braccia verso il Dio-Obama per chiedere protezione.