Nonostante i passi avanti compiuti, la ricerca è ancora largamente considerata un mondo maschile dove le donne, per effetto del più classico degli stereotipi di genere, sono ancora prevalentemente considerate, e apprezzate, solo nel loro cosiddetto “ruolo naturale”, che è quello di madri e mogli
Il 2021 segna un importante anniversario per la cultura del nostro Paese, i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. Una delle tante chiavi di lettura che un evento del genere porta con sé riguarda la figura di Beatrice e, per estensione, il ruolo della donna. Senza voler tentare paragoni improbabili, ci si può domandare come e quanto l’interpretazione sia mutata e quali accelerazioni abbia subito questo cambiamento nel corso dei secoli e in particolare negli ultimi decenni. Ancora fino al 1945 le donne in Italia non potevano votare e fino agli anni Sessanta, prima di una tardiva ma benemerita sentenza della Corte Costituzionale, non potevano accedere alle carriere della pubblica amministrazione. Oggi, la situazione di parità, sancita peraltro dalla Costituzione, è stata raggiunta almeno formalmente, anche se purtroppo restano molti ambiti in cui è ancora troppo lontana. Basta pensare alla parità nei salari, al numero delle donne che occupano posizioni di vertice e di comando fino ad arrivare alla diseguale partecipazione all’impresa scientifica del Paese. Secondo Eurostat, il tasso di occupazione femminile in Italia è del 46%, mentre la media europea si attesta al 58%. Si calcola, inoltre, che il 40% delle laureate italiane svolga un lavoro che richiede un titolo di studio inferiore. Uno spreco di talenti non di poco conto. Se è vero che per l’accesso all’università la parità è ormai raggiunta e anzi superata, è purtroppo anche vero che a fronte di un accesso alle carriere scientifiche paritetico si registra una rarefazione della presenza femminile all’avanzare della carriera. Secondo i dati del Ministero dell’università e della ricerca, su 100 unità di personale docente e di ricerca delle nostre università si contano 45 donne tra i ricercatori, 3 tra gli associati e solo 21 tra gli ordinari. Soltanto il 4% dei rettori e il 18% dei direttori di dipartimento universitario sono donne. La situazione negli Enti pubblici di ricerca (Epr) è analoga, anche se con dati meno fortemente polarizzati. Nel complesso degli Epr abbiamo una presenza femminile al 44,6% nel personale di ricerca con una quota di dirigenti di ricerca e dirigenti tecnologi donne di poco inferiore al 30% (Fonte Conto Annuale Ministero Economia e Finanze).
Tuttavia non esiste un presidente di un ente di ricerca donna e al Cnr, dopo quasi 100 anni dalla sua nascita, abbiamo meno del 20% di donne che dirigono un istituto e, da pochi mesi, due donne chiamate a dirigere due dipartimenti. La situazione nelle imprese non è certo migliore e l’alta tecnologia rimane dominata dagli uomini.
Nel 2019, nell’Unione Europea a 28 le donne erano solo il 32,5% degli occupati nelle imprese ad alta tecnologia e nei servizi high tech e ad alta intensità di conoscenza. I consigli di amministrazione delle imprese high tech, storicamente privi di diversità di genere, stanno facendo progressi. Secondo quanto riferisce l’organizzazione non governativa Catalyst, in Europa la rappresentanza delle donne nei board di alto livello nel settore della tecnologia dell’informazione rimane bassa ma ha registrato il più netto aumento in un solo anno, passando dal 14,8% del 2018 al 17,9% del 2019.
Che fare? Non esiste ovviamente una sola ricetta ma è necessario un continuum di iniziative che devono partire da più livelli, da quello della singola istituzione con l’attuazione dei piani di genere e l’introduzione di misure di equità di genere, a quelli nazionali con una politica scientifica adeguata, a quelli sovranazionali di indirizzo e finanziamento. Tuttavia c’è da rilevare che la china da risalire spesso parte dal livello individuale, dalla diffusione di stereotipi, sovente impliciti, che scoraggiano le ragazze a intraprendere gli studi e le carriere scientifiche. Nella maggior parte dei casi, nell’ambito di lezioni universitarie o di interventi educativi nelle scuole, si verifica che alla domanda “quali sono i vostri stereotipi?” molte persone rispondano “io non ne ho!”. Questo “no” porta all’evidenza proprio la presenza di un forte condizionamento sociale, spesso inconscio, che spinge i soggetti a usare gli stereotipi senza saperlo. La stereotipizzazione, d’altronde, è un processo fondamentale della mente umana, attraverso il quale il nostro cervello immagazzina con facilità una grande quantità di informazioni tramite semplificazioni e generalizzazioni. Acquisendo gli stereotipi nel corso del processo di socializzazione, ci troviamo ad associare a tutti i membri di un gruppo le caratteristiche che pensiamo appartengano a quel gruppo e questo per effetto di condizionamenti familiari o derivanti dal gruppo dei pari o veicolati dai mezzi di informazione. Ci sono tre ragioni principali per cui nessuno è esente dagli stereotipi: lo stereotipo è efficiente dal punto di vista cognitivo, perché semplifica una realtà invece molto complessa, ci risparmia dalla ricerca di informazioni su un individuo, in quanto le sue caratteristiche vengono sempre ricondotte al gruppo, ed è rassicurante, perché si esercitano atteggiamenti peggiorativi nei confronti di chi è diverso. Gli stereotipi che interiorizziamo nel corso della crescita sono di tanti tipi ma producono sempre una prospettiva rigida del mondo che spesso sfocia nel pregiudizio, nella discriminazione e anche nella violenza. A parte i più noti stereotipi di genere, molti riflettono errate semplificazioni della diversità sociale, come quelli che si riferiscono alle origini etniche e geografiche, all’orientamento religioso e sessuale, alla fisicità, alla disabilità ecc.
Ci sono stereotipi anche sulla scienza e gli scienziati. Premettendo che gli scienziati sono pochi (circa lo 0,7% della forza lavoro totale) e pertanto non sempre tutti hanno la possibilità di conoscere personalmente uno scienziato, questi stereotipi richiamano anzitutto l’idea del ricercatore come una persona “diversa” dal comune, genericamente percepita come un individuo intelligente ma anche riservato, socialmente goffo ed esclusivamente dedito al proprio lavoro. Gli stereotipi più forti riguardano però sempre questioni di genere. La “persuasione occulta” di cui parlava il sociologo Pierre Bourdieu e che si manifesta in forme di estetismo socialmente riconosciuto, vuole in questo caso le donne come inidonee alla carriera scientifica, in particolare nell’ambito delle scienze dure. La scienza è ancora largamente considerata un mondo maschile dove le donne, per effetto del più classico degli stereotipi di genere, sono ancora prevalentemente considerate, e apprezzate, solo nel loro cosiddetto “ruolo naturale”, che è quello di madri e mogli. L’immagine di chi è appassionato di matematica, di fisica, di chimica, ingegneria o biologia, è dunque quella di una persona intelligente, magari ossessiva, isolata, ma sempre maschile. Questa percezione distorta non appartiene solo agli uomini ma si traduce spesso in atteggiamenti di autoesclusione dalla carriera da parte dello stesso mondo femminile, frenato per un verso dalla consapevolezza degli ostacoli che in particolare le donne hanno nell’accesso a questa professione e per un altro dalla pervasività dello stereotipo, che viene accettato al punto da rendere reale l’illusione dell’inadeguatezza femminile.