La storia letta nelle ossa delle donne

“Qualcuno si ricorderà di noi, nel futuro”. Negli antichi versi della poetessa Saffo di Lesbo si può leggere la speranza che ha unito milioni di donne nel corso dei secoli. Donne comuni che hanno vissuto, amato, lottato e sofferto al pari degli uomini ma che alla fine sono clamorosamente sparite dai libri di storia senza lasciare traccia. È successo anche da noi in Italia e così molti interrogativi sono rimasti aperti. Prendiamo ad esempio Milano. Che cosa mangiavano le matrone al tempo di Sant’Ambrogio? Che violenze domestiche subivano le popolane sotto il dominio degli Sforza? Quali malattie e disabilità colpivano le lavandaie dei Navigli agli inizi del Novecento? A queste e a molte altre domande prova a rispondere Lucie Biehler-Gomez, una giovane antropologa francese che da tre anni lavora all’ombra della Madonnina, nel Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense (Labanof) dell’Università degli Studi di Milano, sotto la guida del medico legale più celebre d’Italia, Cristina Cattaneo.

«Il mio obiettivo – racconta Lucie – è ridare voce alle figure femminili che hanno vissuto nel capoluogo lombardo negli ultimi duemila anni, per completare quei libri di storia che finora sono stati scritti principalmente in una prospettiva maschile». Un compito davvero arduo, considerato che dal passato ci sono giunti pochissimi documenti o testimonianze di donne che raccontano come fosse la loro vita quotidiana. Fortunatamente, però, non tutto è perduto: «Qualcosa potrebbe essere rimasto impresso nelle loro ossa ed è qui che entra in gioco la scienza», spiega la ricercatrice, pronta a realizzare la profezia di Saffo attraverso l’analisi dei resti scheletrici delle nostre antenate per ricostruirne l’aspetto, l’alimentazione, gli stili di vita e le condizioni di salute.
Un progetto d’eccellenza anche secondo la giuria del Premio L’Oréal-Unesco Italia “Per le Donne e la Scienza”, che ha deciso di assegnare a Lucie una delle sei borse di studio da 20.000 euro ciascuna destinate a brillanti ricercatrici under 35. Tra provette e microscopi, lo studio è appena cominciato e durerà dieci mesi. Il piano di lavoro prevede che vengano esaminati i resti ossei di 250 donne, 50 per ogni epoca storica che va dall’età romana a quella moderna «in modo da avere una visione globale dell’evoluzione della condizione femminile in duemila anni di storia».

I reperti provengono dalla collezione antropologica Labanof, tra le più grandi d’Europa con oltre 6.000 scheletri archeologici, e da una collezione cimiteriale recente che comprende oltre 2.000 scheletri dei giorni nostri, appartenenti a corpi non reclamati e destinati alla ricerca scientifica. In laboratorio sembrerà di rivivere una puntata di Csi. Denti e ossa saranno sottoposti ad analisi morfologiche, radiologiche e microscopiche, innanzitutto per stabilire l’età, la statura e la fisionomia delle milanesi del passato. «Per evidenziare come è cambiato il loro aspetto fisico nel tempo – afferma Lucie – proveremo a realizzare alcune ricostruzioni facciali artistiche, basate su principi anatomici come nei casi di Polizia». Le indagini, condotte in collaborazione con l’Ospedale Galeazzi e il Policlinico San Donato, cercheranno di fare luce su dieta e carenze nutrizionali, malattie e traumi subiti. «Potremo dedurre l’occupazione di queste donne dai segni lasciati impressi sulle ossa dalla muscolatura e potremo riconoscere disabilità, segni di violenze, incidenti e interventi chirurgici. Attraverso l’analisi tossicologica – aggiunge la ricercatrice – potremo ipotizzare anche i medicinali assunti: tutti elementi cruciali per capire come venivano considerate e curate le donne in una società prevalentemente maschilista». L’interpretazione di ogni indizio richiederà un vero lavoro di squadra: Lucie sarà affiancata dagli archeologi e dagli storici dell’Università di Milano che l’aiuteranno a esaminare i corredi funerari delle sepolture più antiche e a ricostruire il contesto socio-culturale di ogni epoca. «A prima vista può sembrare che il nostro studio si focalizzi sulla morte, ma in realtà l’obiettivo dell’antropologia è studiare la vita», sottolinea Lucie. «La storia è scritta nelle ossa e il nostro compito è leggerla, per ridare a queste persone voce e identità».

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