La nuova scuola a cui la ministra Azzolina aspira ha un sapore nord-europeo ma con una cultura ambientalista molto meno radicata e una serie di limiti strutturali che non possono essere ignorati
La pandemia di coronavirus non ha cambiato soltanto il nostro stile di vita ma è entrata prepotentemente nella realtà sociale modificando sistemi che da anni sembravano essere esempi perfetti di immobilismo. Tra questi proprio
la scuola. Il sistema di istruzione pareva destinato a una sorta di oblio, nonostante l’avvicendarsi di ministri (ben cinque in appena quattro anni) e una riforma relativamente recente, la Buona Scuola (legge 107/2015).
Il Covid-19 ha imposto, invece, un cambiamento radicale, viscerale. La data del 14 settembre è quella indicata dal ministero guidato dalla 5Stelle Lucia Azzolina per il ritorno tra i banchi. Un ritorno che sarà costellato da una serie di importanti innovazioni in fatto di didattica. La novità più rilevante è certamente quella legata agli spazi e dunque ai
nuovi approcci educativi. La scuola, per rispettare il distanziamento previsto ad oggi dal Comitato tecnico scientifico (1 metro di distanza fra le “rime buccali degli alunni”), avrà bisogno di più spazi ed è per questo che è stato approntato un “cruscotto”, un sistema informatico che incrocia i dati relativi ad aule, laboratori e palestre disponibili con il dato delle studentesse e degli studenti e la distanza da tenere. “Questo strumento – ha spiegato la titolare del dicastero di viale Trastevere – consente di individuare, comune per comune, scuola per scuola, le priorità di intervento e gli alunni a cui sarà necessario trovare nuovi spazi in collaborazione con gli Enti locali. Uno strumento rapido per poter agire chirurgicamente sulle situazioni più complesse. Secondo i dati dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica ci sono poi circa 3 mila edifici scolastici dismessi che possono essere recuperati. Si useranno anche
spazi esterni, attraverso patti con il territorio, per una didattica che possa svolgersi anche nei musei, negli archivi storici, nei teatri, nei parchi”.
Dunque, attività all’aperto ma anche in luoghi sino ad oggi mai sfruttati a scopo educativo. La presenza quotidiana e costante in aree verdi come giardini pubblici, parchi e simili aprirebbe, forse per la prima volta nella storia del Paese, un reale avvicinamento delle giovani generazioni a temi globali come l’educazione ambientale e il rispetto del bene pubblico. Fare lezione all’aperto significa trovare un modo più diretto per educare gli alunni alle regole e al vivere civile. È naturale, in un quadro delicato come quello cui si va incontro, porsi delle domande sull’impatto che la presenza massiccia di giovani potrà avere sulle aree verdi delle nostre città.
Durante i mesi di lockdown, infatti, i risvolti dell’assenza dell’uomo sono stati tangibili da Nord a Sud.
Alla stessa maniera, una presenza più strutturata e continuativa potrà avere l’effetto opposto? La risposta è certamente sì. È per queste ragioni che oltre a quanto previsto dalle linee guida approntate dal ministero dell’Istruzione, è necessario regolamentare la presenza delle classi nelle aree verdi e non solo da un punto di vista sanitario. In quale maniera si potrà stare al parco? Ai ragazzi verrà fornito un banco? In che modo potranno gettare i rifiuti? È prevista una particolare formazione per gli insegnanti ai quali spetterà il compito di tenere lezione
all’aperto? Come potranno riuscire ad affermare la propria autorità in un contesto così diverso e in cui le distrazioni sarebbero “all’ordine del minuto”?
Sono tantissime le domande a cui ancora nessuno è in grado di rispondere. La nuova scuola cui il ministro Azzolina aspira è una istituzione dal sapore nord-europeo ma con una cultura ambientalista molto meno radicata e con una serie di limiti strutturali che non possono essere ignorati. Se si tratterà solo di una brutta copia di modelli ancora
troppo lontani dal nostro, avremmo solo arrecatodanni alla didattica e dato agli studenti la sensazione che tutto sia stato solo un gioco.