Il termine formula deriva dalle voci formulario e formulare, che un tempo si riferivano alle ricette mediche e alle prescrizioni legali che dovevano, appunto, rispettare una certa forma. Oggi il termine evoca immediatamente, specie nei non matematici, un aggregato di simboli parzialmente incomprensibili e inframmezzati da numeri e lettere. In generale, l’idea che si associa alle formule è di aridità, incomprensibilità e quindi diffidenza. Se chiediamo a una bimba o a un bimbo cosa sia una formula, probabilmente ci risponderà che si tratta delle parole magiche che fate, streghe e maghi usano per formulare (notare il verbo!) i loro incantesimi. Nell’immaginario infantile, la formula per antonomasia è quella magica. Rimpiangendo l’infanzia perduta, ciascuno di noi penserà con nostalgia alle formule magiche e agli incantesimi che, pure, confermano il carattere di incomprensibilità e diffidenza, visto che costituiscono una conoscenza a noi inaccessibile e potenzialmente pericolosa (quella delle streghe in particolare). Le formule sembrano insomma precludere la conoscenza e renderla opaca. “Parlare per formule” è una espressione che spesso sentiamo usare per indicare chi voglia in qualche modo confondere le acque di un discorso. Il fatto è che è vero esattamente il contrario.
Consideriamo il cinquantaseiesimo problema del terzo libro della celeberrima Algebra di Raphael Bombelli, uno dei testi più importanti della storia dell’algebra, pubblicato a Bologna nel 1572: “Trovisi dui numeri tali che il maggiore sia tre volte il minore e che l’eccesso de’ quadrati loro sia 12 volte quanto tutti dui li numeri insieme”. In italiano più moderno, lo formuleremmo (!) così: “Si trovino due numeri in modo che il più grande dei due sia tre volte il minore dei due, e che la differenza dei loro quadrati sia dodici volte la loro somma”. Messo in questi termini il problema non è di immediata soluzione e anche soltanto capire cosa voglia Bombelli da noi in questo caso richiede una certa concentrazione.
Ma se scriviamo l’equazione (3x)2–x2=12(3x+x), abbiamo tradotto il problema in una formula impiegando appena sedici caratteri contro i 25 della scrittura in prosa di Bombelli.
Da dove salta fuori questa formula? I due numeri da determinare siano x e y. Se supponiamo che y sia il maggiore, deve dunque essere tre volte x, da cui y=3x. Inoltre vogliamo che la differenza dei loro quadrati (si sottintende del quadrato del maggiore meno il quadrato del minore) sia dodici volte la loro somma, cioè y2–x2=12(y+x) che, per la relazione fra x e y, dà luogo alla formula che abbiamo scritto.
Il vantaggio di questa formulazione (!) simbolica del problema di Bombelli è almeno duplice:
- offre una formulazione più compatta e più facile da ricordare e da intendere (una volta che si sappiano le regole generali di formazione delle formule algebriche, che non a caso ci vengono insegnate alle scuole medie);
- consente di manipolare l’enunciato del problema fino a risolverlo.
Non divagheremo sul primo punto ma ci soffermiamo sul secondo. La magia dell’algebra è proprio legata alla manipolazione delle formule che, trasformando quella che enuncia il problema, giunge a ottenerne un’altra che offre la risposta. Nel caso dell’equazione precedente, ricaviamo subito 8x2=12(3x+x) ossia 8x2=48x. Dividiamo ambo i membri per 8 e troviamo x2=6x, che è soddisfatta per x=0 e per x=6. Escludendo la soluzione nulla (implicitamente esclusa nel problema), troviamo x=6 da cui y=3x=18 che è la soluzione suggerita da Bombelli.
La manipolazione simbolica secondo certe regole (come sottrarre una certa medesima quantità da ambo i membri, operazione che nell’arabo classico si chiama al-jabr, da cui il nome della nostra disciplina), consente di trasformare la domanda nella risposta. Un fatto stupefacente, quasi magico! Fare la stessa cosa con una domanda qualsiasi, manipolarne il testo fino ad ottenere la risposta, è possibile grazie alla sua formulazione simbolica. L’algebra sembra una magia che funziona male sue formule sono, una volta definiti i simboli e le regole di manipolazione, tutt’altro che oscure e sibilline. Rivelano invece che nascondere. Svelano la soluzione del problema, a partire dalla sua formulazione.
Chiaramente non tutto è così semplice ed enigmi matematici formulati in modo semplice, come il celeberrimo ultimo teorema di Fermat, sono sfuggiti per secoli alla magia degli algebristi e sono stati risolti soltanto dopo aver inventato teorie letteralmente fantascientifiche, il cui sfondo pare degno di una storia del Dr. Strange.
Ma in ogni caso, le formule sono tutt’altro che incomprensibili. Basta avere la voglia e la pazienza di imparare le regole con cui si formano e con cui si manipolano, come succede anche per altre sublimi creazioni dell’intelletto. Si pensi ai versi del Poeta quando afferma (Purgatorio VIII, 19-21):
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani.
Dante ammette che i versi possano essere “strani” e “nascondere” qualcosa, proprio quello che molti pensano delle formule matematiche. Ma sotto il loro velo si cela la dottrina, e chi solleva quel velo può contemplarla. Non saprei trovare una migliore descrizione per la bellezza e l’universalità delle formule matematiche, solo apparentemente aride e criptiche.