Nelle scorse settimane, il Cnr ha pubblicato la Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia 2019, un rapporto contenente analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia. Quasi nelle stesse ore, noi di Prisma interpellavamo una ventina di ricercatori sparsi nel mondo proponendo domande più o meno sugli stessi temi affrontati nel report del Consiglio nazionale delle ricerche.
Il quadro che emerge dalle loro risposte e dalla lettura del report è simile alla figura mitologica di Giano, un dio raffigurato con due volti non solo perché può guardare il futuro e il passato ma anche perché, essendo il dio della porta, può guardare sia all’interno sia all’esterno. Il quadro interno ci racconta un Paese, il nostro, in cui la spesa per Ricerca e Sviluppo in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil) è in lieve ripresa ma che non ci sposta dal fondo alla classifica dei Paesi europei. Interessanti le dinamiche sui ricercatori che, tra dal 2005 al 2016, sono aumentati di circa 60.000 unità (pur distanziandosi ancora di più dalla media Ue) e se ne vanno sempre più spesso nelle imprese private: i dati più recenti mostrano una tendenza in atto che, a livello numerico avvicina il settore privato all’università che, con 78.000 addetti contro i 72.000 delle imprese, rimane ancora l’area più numerosa. Però il numero complessivo dei ricercatori universitari è pressoché stazionario nel tempo. Confrontando l’età dei ricercatori, la Relazione del Cnr mostra come nell’università italiana gli over 50 siano più della metà. Il fenomeno è correlato al generale invecchiamento della popolazione italiana, ma testimonia anche la difficoltà di effettuare nel settore pubblico un reclutamento basato su una programmazione di lungo periodo. In assenza di politiche strategiche di lungo periodo, l’età media dei ricercatori continuerà ad aumentare in tutti i comparti.
I giovani (matematici) li troviamo all’estero e in posizioni di assoluto rilievo. Si rimane un po’ sorpresi e poi ammirati nel vedere quanto la nostra formazione universitaria sia apprezzata all’estero. Ma se le nostre università sono tra le migliori, dove si inceppa il meccanismo? Negli anni del dottorato e in quelli che dovrebbero rappresentare l’inizio di una carriera universitaria è stata la risposta quasi unanime. La carenza di fondi e la poca chiarezza nella loro gestione e nel sistema di reclutamento rendono molto difficile la programmazione ragionevole di una carriera. E della vita in generale. Uno scenario amaro che ha tolto sapore a una esperienza come quella della formazione all’estero, dove non si dovrebbe andare solo per trovare lavoro e quelle soddisfazioni che non si riescono ad avere in Italia ma anche per il piacere di gettare uno sguardo su altre realtà, per avviare rapporti di cooperazioni scientifiche e anche incuriosire e motivare altri ricercatori a trasferirsi nel nostro Paese.
Se vogliamo guardare al futuro, questa ci sembra la sfida più intrigante.
Vincenzo Mulè – Direttore responsabile