Non esiste forse arrampicatore che non abbia almeno sentito menzionare il diedro Philipp-Flamm sulla parete nord-ovest del Civetta. Pietra miliare dell’alpinismo dolomitico dal 1957 (anno della prima salita) e tassello obbligatorio nel curriculum di un alpinista di livello. Quando nel 2006 si sparse la notizia del decesso di Walter Philipp, scomparso da tempo dalle scene del mondo alpinistico, molti matematici di professione e arrampicatori nel tempo libero scoprirono stupefatti che il professor Philipp, di cui avevano studiato i lavori di teoria della probabilità, era lo steso Philipp del diedro del Civetta. Una breve ricerca supplementare avrebbe ulteriormente accresciuto il loro stupore: il suo compagno Dieter Flamm, oltre a essere il nipote del fondatore della meccanica statistica Ludwig Boltzmann, era un noto professore di fisica teorica.
Questa singolare appartenenza simultanea ai due mondi della ricerca scientifica di punta e dell’alpinismo di alto livello, è stata riproposta più recentemente dall’assegnazione nel 2016 a Mike Kosterlitz del premio Nobel per la fisica. Kosterlitz era diventato, nel corso degli anni, una sorta di personaggio leggendario del mondo dell’arrampicata. Soprattutto in Italia, grazie al ruolo avuto nei primi anni ‘70 del secolo scorso nella scoperta delle pareti granitiche della Valle dell’Orco. Era già un alpinista di alto livello quando giunse al Politecnico di Torino nell’autunno del 1969, con al suo attivo una delle prime salite del diedro Philipp in Civetta, la prima ripetizione della via degli americani al Dru (fatta con Mick Burke nel 1966) e una via nuova sulla nord del Badile, tracciata nel 1968 insieme a Dick Isherwood.
È un caso questo della presenza contemporanea, con una frequenza non riscontrabile in altri gruppi professionali, dell’anima scientifica e della passione per l’alpinismo praticato in maniera professionistica? C’è una ragione profonda che spiega la frequenza con cui passione per la montagna e passione per la scienza albergano negli stessi individui, o questa è dovuta a una semplice fluttuazione statistica non particolarmente significativa?
La villeggiatura dei fisici romani
Quest’ultima sarebbe la risposta più semplice: si tratta di un caso. È però una risposta incrinata da qualche dubbio se continuiamo l’indagine tornando indietro nel tempo di qualche decennio.
C’è William Shockley, premio Nobel per la fisica nel 1956 per le sue ricerche sui semiconduttori (quelli che hanno aperto la strada al transistor, per capirsi) e autore, in quegli stessi anni, di belle salite di roccia nella falesia degli Shawangunks, nelle vicinanze di New York. C’è ancora Henry Kendall, prolifico esploratore di vie nuove sulle Ande e compagno di cordata di Gary Hemming nella prima salita americana della parete nord delle Grandes Jorasses; Kendall ha condiviso il premio Nobel per la fisica nel 1990 per le ricerche pionieristiche sul deep inelastic scattering di elettroni su protoni e neutroni legati, che hanno avuto un ruolo essenziale per lo sviluppo del modello a quark nella fisica delle particelle.
Sono dubbi che, anziché diminuire, aumentano se si risale al periodo tra le due guerre mondiali e ai ragazzi di via Panisperna, il gruppo di giovani fisici italiani raccolto a Roma intorno alla figura di Enrico Fermi. Grazie all’influenza decisiva della sua personalità scientifica e a una oculata politica della ricerca, nel giro di pochi anni i “ragazzi di via Panisperna” diventarono uno dei più agguerriti gruppi operanti nel neonato settore della fisica nucleare, giungendo nel 1934 a produrre risultati di assoluto rilievo internazionale nel campo della radioattività artificiale e della fisica dei neutroni che valsero a Fermi l’attribuzione del premio Nobel nel 1938.
La villeggiatura estiva nelle Dolomiti era fin dalla fine dell’Ottocento una consuetudine nell’ambiente scientifico romano, in particolare tra i matematici che di quell’ambiente costituivano l’espressione culturalmente più significativa. Si trattava di un piccolo circolo molto unito anche al di fuori delle mura accademiche: si ritrovavano spesso insieme – a Cortina, a Dobbiaco o a Selva – personaggi come Tullio Levi-Civita, Federigo Enriques, Ugo Amaldi, Guido Castelnuovo, con relative famiglie e amici. La tradizione si è poi trasmessa alla generazione successiva e i più giovani (che in maggioranza si dedicavano alla fisica e all’ingegneria, piuttosto che alla matematica) aggiunsero alla predilezione dei padri per i lunghi soggiorni alpini un gusto per l’esercizio fisico che li spinse, in diversa misura, verso una pratica più attiva degli sport di montagna. Il legame associativo era dato dalla sezione universitaria del CAI di Roma e, se per alcuni (Fermi compreso) la pratica degli sport di montagna si esauriva in poco più che lunghi giri in bicicletta e più o meno faticose escursioni, per altri bisogna parlare di un alpinismo di buon livello. Certo, non stiamo parlando delle grandi imprese di quegli anni, che sono quelli della nascita del sesto grado e dell’epoca d’oro dell’arrampicata nelle Dolomiti: quelli che vanno dalla Solleder al Civetta alla ascensioni di Cassin passando per la “goccia d’acqua” di Comici sulla Grande di Lavaredo. Il solo Mario Salvadori, non un fisico ma un ingegnere e matematico che entrò poi in stretto contatto con l’Istituto per le Applicazioni del Calcolo di Mauro Picone, giunse a sfiorare l’ambiente di punta dell’alpinismo dolomitico di quel periodo e diventò Accademico del CAI nel 1931, prima di interrompere l’attività a seguito di una brutta caduta durante un tentativo di via nuova alla parete sud-ovest della cima Witzenmann, nel massiccio della Croda dei Toni.
Con Salvadori arrampicava Edoardo Amaldi, allora giovane studente da poco passato dagli studi in ingegneria a quelli di fisica, attratto dalla personalità di Enrico Fermi. Il cambio di facoltà fu per lui il primo passo di una carriera che lo avrebbe portato a diventare un personaggio di primo piano della fisica e della politica scientifica italiana, come componente del gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” negli anni Trenta e in seguito come artefice della ricostruzione e dello sviluppo della ricerca nel dopoguerra. L’impegno nella ricerca scientifica lo assorbirà sempre di più, ma Amaldi continuò ad arrampicare: Cima Piccola di Lavaredo nel 1926, Campanile Rosà e Campanile di Val Montanaia nel 1927, cresta S dell’Herbetet, Dente del Gigante, Aiguille Verte per la cresta del Moine, parete E della Grande Rousse, Grand Combin, traversata del Lyskamm nel 1932.
Alcune di queste arrampicate Amaldi le ha compiute in compagnia di Franco Rasetti, un altro fisico che svolse un ruolo cruciale nelle ricerche di Fermi sulla radioattività indotta mediante bombardamento di neutroni. Quello di Rasetti è sempre stato un alpinismo di stampo classico, più orientato alle salite di grande respiro sulle alte montagne occidentali che alle virtuosità sulla roccia predilette da Amaldi. Nel bilancio della sua attività alpinistica ci sono l’Aiguille de Rochefort e il Mont Mallet nel gruppo del Bianco, la prima ascensione in giornata della cresta Signal alla Punta Gnifetti, le varie punte del Rosa e la traversata dei Lyskamm, i Dents des Bouquetins e la Dent d’Hérens, la traversata del Cervino (Leone-Hornli). Sono tutte ascensioni fatte nel corso degli anni Venti. Nel 1925 porta Enrico Fermi sulla Presanella e questa è poco più di una gita per accompagnare un amico su una bella cima, ma nel marzo 1929, mentre si trova a Pasadena per un soggiorno di studio grazie a una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, si toglie lo sfizio di effettuare in compagnia di Fritz Zwicky la prima invernale del Mount Whitney, la vetta più alta della Sierra californiana (e questa è una salita di polso). Molto più tardi, rientrato in Italia dal Canada, infila alla rispettabile età di quasi 60 anni, alcune altre belle cime della catena alpina: Zinal Rothorn, Rimpfischhorn, Fletschhorn, Grand Cornier, Piz Palu, Piz Kesch. Chiude la sua carriera alpina nel 1964 salendo il Nadelhorn. Negli ultimi anni di vita attiva, prima della lunga malattia che lo rinchiuderà nella sua casa in Belgio dove si è spento poco più che centenario nel 2001, realizza una monumentale opera fotografica sulla flora alpina ritrovando la passione per la ricerca naturalistica che lo aveva spinto verso un’esistenza dedicata alla scienza.
I dubbi, diciamo, aumentano. Del resto il CAI, il Club Alpino Italiano, era stato fondato nel 1863 da Quintino Sella che, oltre a essere stato ministro delle finanze, fu mineralogista di fama internazionale e uomo di scienza a tempo pieno prima di dedicarsi interamente all’attività politica. È ora quindi di capire perché nel tempo si è venuto a formare un legame stretto tra mondo della scienza e alpinismo. Un aiuto decisivo ci verrà dalla sua storia, continuando la nostra camminata a ritroso nel tempo.
Alla conquista di un mondo che non esiste
L’alpinismo nasce tradizionalmente nel 1786 con la prima salita del Monte Bianco. È il momento di rottura dall’alterità delle alte quote rispetto all’universo di intervento dell’uomo. Prima, l’alta montagna era il territorio non antropizzato situato al di sopra dei pascoli, un mondo essenzialmente disabitato, fatto di pareti rocciose e ghiacciai, un “luogo che non esiste” per chi abitava le valli alpine come per il borghese della città. A parte le saltuarie incursioni di cercatori di cristalli o di cacciatori di camosci, che si limitavano comunque a superare appena il confine della terra proibita, l’irrilevanza delle alte quote come terreno di attività utili e la loro oggettiva pericolosità, trasformano il territorio situato oltre il limite del pascolo in un luogo dove non serve andare e dunque non si deve andare. Questo limite traccia una frattura, una discontinuità reale tra il luogo dell’esperienza umana e un luogo altro, che non esiste per gli uomini e che, proprio perché sottratto all’esperienza, può essere investito di significati simbolici. Miti e magie abitano l’alta montagna; le cime sono dimora degli dei, spiriti e creature non di questo mondo ne popolano i dintorni.
L’alta montagna, ancora verso la fine del Settecento, è una macchia bianca sulle carte geografiche. La nascita dell’alpinismo rappresenta la cancellazione della macchia bianca che si intreccia con lo sviluppo delle scienze naturali e in particolare con la nascita delle moderne scienze della terra. Fisici, glaciologi e geologi sono i protagonisti dell’esplorazione e della conquista delle Alpi: alle descrizioni fantasiose dei draghi alpini si sostituiscono le misurazioni esatte dei barometri e dei teodoliti. L’alpinismo integra l’alta montagna nella natura conosciuta e la riempie di cifre, segni, tracciati e colori. La montagna diventa un luogo come tutti gli altri, un luogo dove si possono fare esperimenti scientifici e rilevazioni topografiche e su cui convergono interessi militari.
Ecco perché la forte presenza degli uomini di scienza tra gli arrampicatori non è del tutto casuale. Affonda le radici nel DNA dell’alpinismo, che nasce per scopi prevalentemente scientifici come esplorazione di territori sconosciuti. Per l’alpinista-scienziato della prima metà dell’Ottocento la vetta, proprio in quanto luogo fisico, è di importanza primaria: la messa a punto della topografia di una zona richiede che si raggiunga quella particolare cima, che la sua altezza sia determinata con precisione, che quella punta ancora inviolata venga conquistata perché è quel particolare punto geografico che ancora manca all’appello per riempire la macchia bianca sulla carta topografica come su quella più generale della conoscenza.
Naturalmente, le motivazioni più propriamente conoscitive che fanno da molla propulsiva al primo periodo della storia dell’alpinismo, si esauriscono via via che l’esplorazione della cerchia alpina giunge a conclusione. Da un certo momento in poi, prima timidamente e poi in modo sempre più dichiarato e accettato, chi intende salire le montagne non si sente più in dovere di trincerarsi dietro a motivazioni di carattere scientifico. La costituzione di associazioni di alpinisti, prima tra tutte l’Alpine Club inglese nel 1863, riflette questo spostamento di significato dell’alpinismo sul terreno dell’organizzazione sociale. Le Alpi diventano “the playground of Europe”. È un gioco inizialmente riservato a una élite ben definita, colta e benestante, che si raccoglie attorno a proprie regole di comportamento, che seleziona l’ingresso di nuovi membri nella società e comincia a parlare un linguaggio specializzato. È una nuova ragione per trovare una discreta percentuale di uomini di scienza tra chi si arrampica e tende a vivere la montagna come un microcosmo eticamente superiore, dove la dimensione proiettiva trascende quella puramente esperienziale.
Ci sono dunque ragioni storiche e sociali per cui, andando in montagna, incontriamo idealmente Quintino Sella, i ragazzi di via Panisperna e alcuni prestigiosi premi Nobel per la fisica. Poi, c’è il caso. Ma per descriverne la bellezza lasciamo le parole a Henry Kendall: “Mi piace andare in montagna, in posti dove nessuno è stato prima. Il mondo è un posto incredibilmente bello. È bello al livello profondo della fisica, giù dentro le cose. E anche quello che conosciamo dell’universo che possiamo vedere è incredibilmente bello; e mi piace vedere tutto questo, ed esplorarlo”.