Ricorderemo a lungo il 2016 come l’anno del referendum sulla Brexit e dell’elezione del presidente Trump negli Stati Uniti. L’Oxford English Dictionary, monumentale dizionario storico che sta alla lingua inglese come la Crusca sta a quella italiana, lo ha celebrato eleggendo a parola dell’anno l’espressione post-truth, post-verità. Imitando la Crusca oxfordiana, potremmo scegliere per il 2019 italiano una nuova parola dell’anno: post-matematica. Un luogo fantastico nel quale non c’è più bisogno di dire una bugia, basta rinominare la verità: il rugoso diventa piatto, la salita diventa discesa, il cinque diventa uno. Il tutto, sotto una titolazione inglese, che aggiunge un ulteriore ingrediente alla ricetta: et voilà, la flat tax è servita. Forse non vedrà mai la luce, ma di certo gode di una popolarità e un appeal notevoli.
Questione di frazioni
Ancor prima di Berlusconi la flat tax aveva fatto il suo ritorno sulla scena della teoria economica negli anni Ottanta del secolo scorso, senza per questo trovare attuazione concreta in nessuno dei grandi Paesi industrializzati occidentali. A voler andare indietro nel tempo, in effetti una flat tax in Italia l’abbiamo avuta per secoli e si chiamava la decima: quando tutti dovevano pagare il 10 per cento del raccolto al re, o al feudatario, o al vescovo. Parliamo di ere pre-industriali, anzi, pre-rinascimentali. Fu infatti la Firenze del ‘400 a introdurre il primo scalino per i più ricchi, detto “la decima scalata” che in effetti durò poco, per la rivolta dei possidenti. La comprensione della flat tax è molto semplice. Basta conoscere le frazioni: al denominatore il proprio reddito annuo e al numeratore quanto si paga al fisco. Nel nostro sistema fiscale, dalla riforma del 1974 che ha introdotto l’Irpef, la quota percentuale che si paga è crescente al crescere del reddito: vale a dire, a mano a mano che crescono i guadagni (denominatore), si paga un’aliquota maggiore (valore della frazione). Con la flat tax, invece, si propone di far pagare sempre la stessa frazione di reddito: tassa piatta, appunto. Vale a dire che l’aliquota è sempre uguale: se cresce il reddito, la somma da pagare al fisco sarà maggiore ma il rapporto resta lo stesso. Esempio: se l’aliquota è il 15%, chi ha un reddito di 1000 paga 150, chi ha 2000 paga 300, chi ha 5000 paga 750, e così via.
La progressività perduta
Cosa c’è che non va, se si chiamano tutti a pagare la stessa percentuale del proprio reddito? Sul piano della giustizia sociale, si potrebbe discutere a lungo e portare tonnellate di studi. O citare Don Milani, che una volta disse: “Nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali”, frase evocata nel sottotitolo del bel libro appena pubblicato, sulla flat tax, di Massimo Baldini e Leonzio Rizzo per Il Mulino. Fare “parti uguali tra disuguali” non era neppure nella visione del mondo dei costituenti, tant’è che l’articolo 53 della Costituzione, dopo aver sancito che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, afferma che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Nella scienza delle finanze, la parola “progressività” non evoca una generica aspirazione ma corrisponde a un principio molto preciso: chi ha di più deve contribuire alle casse pubbliche in misura più che proporzionale.
Dunque, a una prima lettura, la flat tax sarebbe incostituzionale. Però può non essere così, dato che la Costituzione non parla di uno specifico tributo ma del sistema nel suo complesso: se avessimo, per esempio, un’imposta sul patrimonio fortemente progressiva e una sul reddito del tutto piatta, il sistema alla fine sarebbe “progressivo” nel suo insieme perché il prelievo complessivo inciderebbe in misura maggiore sui più abbienti.
In realtà, nel nostro sistema l’unica imposta progressiva – che pesa in modo crescente al crescere della capacità contributiva – è quella sul reddito. Quindi, se la appiattiamo, eliminiamo l’unica progressività che c’è (soggetta peraltro a molte eccezioni, dato che su alcuni redditi finanziari e da affitti si applica già una imposta ‘piatta’, la cedolare secca). Ecco allora che alcuni partiti parlano di “flat tax progressiva”. In linea di principio, è possibile avere una flat tax progressiva se si introducono delle deduzioni fisse dal reddito che avvantaggiano i redditi più bassi. Torniamo all’esempio numerico di prima: se l’aliquota è del 15% per tutti ma si concede a tutti una deduzione di 1000 euro (cioè si tolgono 1000 euro dal reddito su cui determinare la tassa), chi ha un reddito di 1000 euro pagherà zero; chi ce l’ha di 2000 euro ne pagherà 150 cioè il 15% su (2000 – 1000), chi guadagna 5000 euro ne pagherà 600 (il 15% di 4000). Per il primo, l’aliquota effettiva sarà pari a zero; per il secondo, sarà del 7,5%; per il terzo, sarà del 12%. Ecco dunque ristabilita, attraverso le deduzioni, la progressività dell’imposta.
In ogni modo, la progressività non è un elemento fisso: può essere maggiore o minore, concentrata sulla parte media o alta del reddito. Una progressività con aliquota piatta sarà più “blanda” di una con aliquote crescenti, a meno che l’aliquota piatta non sia molto alta, ma in questo caso penalizzerebbe le fasce medie della popolazione. Oppure bisognerebbe concedere deduzioni tanto grandi da provocare notevoli effetti sul gettito.
Dove si fissa l’asticella
Arriviamo ora agli ostacoli pratici. Passare da un sistema, come quello attuale italiano, in cui sono previste cinque aliquote che vanno dal 23 al 43% a un sistema con una sola aliquota, ha un ovvio effetto sul gettito che varierà a seconda dell’aliquota alla quale si fissa la “flat tax”.
Nella proposta che a suo tempo, nel 1994, Berlusconi lanciò nella sua prima campagna elettorale era al 33%. In quella con la quale la Lega si è presentata alle elezioni lo scorso anno è al 15%. Secondo i due economisti prima citati, Baldini e Rizzo, se introducessimo una flat tax al 35%, non avremmo alcuna perdita di gettito ma la classe media – la massa che attualmente sta nella parte centrale della curva dell’Irpef – ne sarebbe fortemente penalizzata, a vantaggio dei pochi che stanno negli scaglioni superiori. Invece, con un’aliquota al 15% e l’attuale sistema di deduzioni, avremmo insieme una riduzione della progressività e un costo totale di circa 50 miliardi, da trovare in altro modo.
Per questi motivi la flat tax non si farà mai nella versione nella quale è stata proposta in campagna elettorale. Ma, prima di passare a vedere come (eventualmente) si farà, fermiamoci per un attimo sull’ultimo numero. Chiunque è in grado di capire che, se nelle casse dello Stato vengono a mancare 50 miliardi, questo ammanco può ripercuotersi nell’aumento di altre tasse oppure in tagli di spesa. Perché allora piace? Siamo un popolo di risparmiatori incapace di ragionare su queste questioni? Oppure, quando si viene a parlare di soldi, siamo tutti vittime di illusioni finanziarie? Nell’incipit di un bel libro sulla finanza comportamentale, Fabrizio Ghisellini cita una cronaca comica del Chicago Tribune del 21 agosto 1965: “L’altra sera un tipo al ristorante ha chiesto al cameriere di tagliargli la pizza in sei fette anziché in otto, perché non aveva abbastanza fame per mangiare otto fette di pizza”. Siamo davvero così? Oppure pensiamo che individualmente siamo capaci di affrontare in modo più efficiente le spese per i servizi utili alla nostra vita? Oppure siamo solamente attratti dal mito della semplicità dell’imposta “piatta”?
Non è più piatta
Se così è, occorre dare una notizia: la semplicità è perduta, la flat tax non è più flat. Nella prima manovra economica dell’attuale governo, per i lavoratori dipendenti non è cambiato niente mentre la flat tax è stata introdotta solo per i lavoratori autonomi con partita Iva al di sotto di una certa soglia di reddito (65.000 euro; questo teto allarga la platea di un regime forfettario già esistente prima, limitato ai redditi bassi). Nella seconda manovra, quella per il 2020, si propone un sistema alquanto complicato in cui la flat tax sarà riservata alle famiglie sotto i 50.000 euro di reddito complessivo. Avremo così due sistemi fiscali, uno “vecchio” per le famiglie che sommando i loro redditi stanno sopra i 50mila e uno “nuovo” per chi sta sotto. Anche in questo modo il sistema perde in progressività e soprattutto in equità. Saranno penalizzati coloro che hanno più redditi in famiglia: per lo più, le famiglie in cui le donne lavorano. Per le altre, i risparmi di imposta maggiori si avranno attorno ai 40.000 euro di reddito (ossia nella fascia più alta) mentre i redditi familiari del ceto medio, quelli che stanno attorno ai 25-30.000 euro lordi l’anno, ci guadagneranno pochissimo.
In una tale versione, la non-più-flat tax costerebbe 17 miliardi, e pure in questo caso non si sa dove saranno trovati. Anche nell’era della post-matematica le spese pubbliche andranno in qualche modo finanziate e allora, delle due, l’una: o aumenteranno altre tasse (o saranno tagliate altre detrazioni e deduzioni) oppure si ridurranno le spese. In un settore a scelta: sanità, scuola, lavori pubblici, difesa, pensioni. Tertium datur e sta nell’ulteriore e consistente aumento del debito pubblico.