Vivere in una società pervasa dalla tecnologia ci sta rendendo sempre più consapevoli dell’importanza delle abilità matematiche nella vita quotidiana. Non è quindi un caso che i neuroscienziati si siano messi alla ricerca di quei fattori che predispongono al pensiero matematico e lo facilitano, dando al nostro cervello una certa dimestichezza con i numeri. Come per ogni dimensione che caratterizza l’individuo, sia essa un’abilità cognitiva o una caratteristica comportamentale, il dibattito ha visto per lungo tempo contrapporre natura e cultura: in altre parole, si è cercato di capire se matematici si nasce o si diventa.
Nati col pallino?
Nonostante sia stato riconosciuto fin dai tempi di Jean Piaget che lo sviluppo cognitivo è l’esito dell’interazione tra patrimonio genetico e ambiente, la tesi innatista per cui matematici si nasce e non si diventa continua a essere la più popolare, forse perché consolida credenze secolari sull’origine naturale del talento e, allo stesso tempo, offre una comoda giustificazione a coloro che si abbandonano alla rassegnazione in caso di insuccesso.
L’enfasi mediatica sull’origine innata del “pallino” della matematica è stata legittimata dall’attenzione alle numerose ricerche che hanno mostrato come alcune abilità numeriche siano presenti fin dalla nascita. In particolare, usando una metodologia di ricerca nota come “tecnica dell’abituazione”, basata sul fatto che i neonati guardano più a lungo gli stimoli nuovi da cui sono attratti, è stato ormai ripetutamente dimostrato che già a poche settimane di vita è possibile cogliere sia la differenza tra piccole numerosità (per esempio 2 vs 3, 3 vs 1) sia la differenza tra grandi numerosità (per esempio 6 vs 18). Non solo: questa precoce sensibilità alla numerosità emerge anche quando le differenze interessano stimoli percettivi diversi, come una sequenza di suoni o un insieme di elementi visivi, a dimostrazione del notevole grado di astrazione con cui l’informazione quantitativa è rappresentata nella mente di un neonato. Ancor più sorprendente è aver scoperto che bastano pochi mesi di vita perché i bambini diventino capaci di distinguere ciò che cresce da ciò che decresce, e mostrino vere e proprie aspettative aritmetiche, vale a dire che si attendono una specifica variazione nella numerosità di una rappresentazione visiva come conseguenza di un’addizione o una sottrazione di elementi. Tali aspettative aritmetiche appaiono molto forti, come se la numerosità fosse un attributo saliente rispetto, per esempio, alla forma e al colore.
Numerose ricerche hanno mostrato come alcune abilità numeriche siano presenti fin dalla nascita
Esistono meccanismi innati di quantificazione che, in realtà, condividiamo con molte specie animali
Non siamo soli
Gli studiosi concordano nell’ipotizzare che queste sorprendenti capacità riflettono la presenza di meccanismi innati di quantificazione che, in realtà, condividiamo con molte specie animali, dai nostri più vicini antenati, i primati, ai meno arguti pulcini, fino ai silenti pesci zebra.
L’universalità di queste competenze ci conferma l’importanza di percepire il mondo in termini quantitativi per potersi adattare al meglio. La numerosità è infatti un attributo naturale del nostro ambiente e saperne cogliere il valore, almeno in termini relativi e comparativi, sia essa riferita alle ghiande presenti su due rami o al numero di predatori e di alleati in una situazione di scontro territoriale, è senza dubbio vantaggioso per il successo riproduttivo individuale e la sopravvivenza della specie.
Il fatto che l’evoluzione ci abbia dotato di strutture cerebrali specializzate nel riconoscimento della numerosità e che queste permettano, fin dai primi giorni di vita, di codificare gli stimoli sensoriali anche in termini quantitativi, ha avvalorato l’ipotesi innatista, che attribuisce alla predisposizione naturale il motivo per eccellere o faticare in matematica. Una recente ricerca americana avrebbe proprio confermato che le differenze individuali che si osservano nei bambini di 6 mesi nella precoce sensibilità a cogliere variazioni di numerosità, risultano predittive delle abilità numeriche simboliche – come contare e conoscere i numeri – misurate in quegli stessi bambini a 3 anni e mezzo.
Il peso dell’esperienza
Ma certo è che, fin dai primi anni di vita, la qualità e la quantità di esperienze con il mondo dei numeri (determinata da fattori come l’ambiente familiare, quello socio-culturale e scolastico) giocano un ruolo determinante nello sviluppo delle abilità numeriche. È stato recentemente introdotto il termine home numeracy proprio per catturare quell’insieme di attività domestiche, come giocare a carte, cucinare o fare la spesa, che espongono un bambino a esperienze informali con i numeri e con il calcolo e che, secondo vari studi, sarebbero associate a una buona riuscita scolastica nell’ambito della matematica.
Senza parlare delle aspettative e dell’atteggiamento, spesso non neutro, che i genitori nutrono nei confronti della matematica e che è stato dimostrato ampiamente responsabile della facilità o difficoltà con cui un bambino si misura con questo ambito di apprendimento. Altro fattore di rischio è certamente la didattica, dato che non è raro che siano gli stessi insegnanti a provare disagio con la materia o ad alimentare intenzionalmente l’aura di terrore verso la disciplina come indice di prestigio e serietà della loro specializzazione.
Le esperienze con il mondo dei numeri sono determinanti fin dai primi anni di vita
Una ricerca ha messo a fuoco quali sono i fattori più importanti per ottenere buoni risultati
Dotati o “imparati”?
L’insegnante può fare la differenza, così come possono farla la tenacia e la determinazione. Una ricerca che ha coinvolto 3.500 tra ragazzi e ragazze, monitorati per 5 anni nei loro progressi in matematica, ha messo a fuoco quali sono i fattori più importanti per ottenere buoni risultati. Quello che è stato dimostrato è che, se inizialmente gli alunni con maggior quoziente intellettivo erano quelli che avevano migliori prestazioni in matematica, con l’andare del tempo venivano superati da coloro che, pur partendo svantaggiati, sviluppavano migliori strategie di apprendimento e una più forte motivazione allo studio.
In conclusione: dotati o “imparati”? È chiaro che non si tratta di una vera alternativa perché, come già anticipato da Piaget, lo sviluppo cognitivo si realizza attraverso l’integrazione tra fattori innati e fattori esperienziali, e le abilità numeriche non sono esenti da questo principio. In altre parole, con poche eccezioni, ciò che rende un bambino un brillante futuro matematico o un esitante e ansioso calcolatore non è da cercare nel suo cervello, ma soprattutto nei modi e nei tempi in cui gli è stato svelato il mondo dei numeri.